Come certi paradigmi storiografici conservatori ed egemonici, si rinnovino per potersi ancora perpetuare, lo dimostra il recente documentario, peraltro di ottima fattura, andato in onda su Rai Storia che mette insieme, indebitamente, “I fenici e la Sardegna nuragica”, invertendo, già dal titolo, l’ordine storico dei fattori. Il documentario sembra essere la punta di diamante di una vera e propria offensiva propagandistica. Premesso che non si vuole sminuire l’importanza dei Fenici nella storia anche sarda, facciamo però un passo indietro, per capire come questa nuova offensiva si esprima mediante una semantica tendente a creare degli stereotipi ed un clima egemonico che diventa, socialmente, pervasivo. Per tradizione il corpus storiografico sardo si esprime in questo modo: “… la Sardegna, l’antica zolla che i greci assomigliarono ad un piede umano, ebbe segnato in parte dalla natura stessa il suo destino che la sua gente – ed altri genti sopravvenute su di essa da ogni parte – perfezionarono con spietata coerenza. Effetto di quella sorte fu la condanna della ventosa terra arcaica, posta fra mare e cielo, a una pittoresca immobilità; quasi a far mostra, o da sedimento, ad un mondo ancestrale e fossile, durante lo svolgersi di mondi e di una umanità più recenti e in moto; a diventare l’immagine didattica della preistoria nella storia.”. La Sardegna antica, pertanto, altro non è che la proiezione della Sardegna moderna, una terra destinata ad essere immobile ed isolata, nei suoi barbarici silenzi perché, fondamentalmente, è già tutto scritto nel destino immutabile, visto che “questi quadri particolari di civiltà l’isola ebbe a fissarli specie durante l’età nuragica, ma i loro esiti elementari si mantengono ancora oggi.”. Siamo al termine di un percorso storiografico che dal Pinzi prosegue con il Taramelli e arriva fino a Lilliu, il fondatore della “Nuragologia”, che scrisse queste cose con il suo capolavoro, suggello di un’intera epoca di studi, La civiltà dei Sardi, del 1963. Un percorso che, tuttavia, non riguardava solo la storia o l’archeologia, ma l’intera cultura dell’epoca, che dipingeva la Sardegna come un deserto silenzioso, aspro e battuto dai venti, popolato da fieri pastori e banditi ribelli. Una iconografia egemonica, imposta dal centro della nazione, accolta anche dagli intellettuali sardi nel tentativo di riscattare le sorti storiche dell’isola. La visione della Sardegna antica chiusa nei suoi recessi isolati, in realtà, giustificava un presente di trascuratezza sociale e di speculazioni economiche. Su come la storiografia di una nazione sia condizionata dai processi di “nation building”, e su come la mania del diffusionismo culturale di importazione per la storia antica dell’isola, sia prosecuzione di scelte politiche attuali, sarebbe troppo lungo parlarne in questa sede, e rimando alla prossima uscita del mio libro sull’argomento. In quella terra immobile, tuttavia, l’immenso patrimonio archeologico, unico al mondo, raccontava cose molto diverse. Non fu facile, per l’egemonia culturale dell’epoca, riuscire a dipingere la Sardegna come terra immobile e nello stesso tempo spiegare la presenza di originali forme geometriche e architettoniche fin dal neolitico, le sepolture preistoriche, il culto dell’acqua espresso nelle magiche fonti, per non parlare di quell’incredibile pullulare di migliaia di torri megalitiche dalla intensa simbologia. Come fare a dipingere una terra immobile da sempre, fuori dalla storia, con tutta quell’esplosione monumentale? Allo stereotipo della Sardegna immobile, fuori dalla storia, si aggiunse, così, la teoretica del diffusionismo esterofilo. Dato che in Sardegna l’architettura e l’arte, con i bronzetti nuragici, era notevole, si cercò di giustificarla come di importazione. Per cui i nuraghi erano di origine micenea, l’arte dei bronzetti di origine fenicia, e così via. Un personaggio dell’autorevolezza di Sabatino Moscati, faro illuminante dell’archeologia nazionale, ancora negli anni ’90, si esprimeva in questo modo: “Intorno alla metà del II millennio, dunque, i pastori sardi, vissuti nel chiuso dei loro altipiani, entrano in contatto con i costruttori delle tholoi, sbarcati sulle loro coste.”. Tuttavia, secondo il noto studioso, delle tholoi greche, i sardi ne fanno una torre di difesa, a prevalente uso militare. Ma “solo agli inizi del I millennio, tuttavia, la Sardegna comincia a uscire in modo evidente dall’isolamento che avevano determinato la posizione geografica, l’ambiente naturale e le vicende mediterranee, svoltesi sempre ai suoi margini. La rottura di tale isolamento è determinata in modo fondamentale dall’avvento dei navigatori fenici, che fondano una serie di città sulle coste sud-occidentali dell’isola.”. Arrivano così, prosegue il grande archeologo, “i bronzetti, la più celebre realizzazione dell’artigianato sardo, nella cui genesi l’apporto fenicio appare indiscutibile.”. (Cosi nacque l’Italia, 1993). Si prosegue parlando delle dominazioni fenice, cartaginesi e romana. L’apporto fenicio è fuori discussione, categorico. Tanto è vero che lo studioso ritiene di dover ricondurre ai fenici anche le statue di Mont’e Prama, datandole in una epoca tarda, nell’VIII secolo. Quindi la Sardegna, immobile, assorbe tutto dall’esterno. Nel frattempo, come fare a giustificare quella impressionante carica di entropia che emana la monumentalità sparsa per l’isola? Fu cosi che nacque la teoria dell’implosione perpetua. Torri che altro non erano che migliaia di fortezze, con i soldati dentro, a combattersi tra di loro in una infinita, secolare, millenaria, guerra civile. Uno degli aspetti più surreali del paradigma storiografico egemonico che, tuttavia, ancora oggi resiste, come la storia dei sardi, abitatori di un’isola, incapaci di navigare. Anche se ormai persino Lilliu, nel 2006, spiegava che “Caduta l’idea del blocco e la mitologia cronologica, il mondo dei nuraghi, secondo gli studi attuali, si presenta come un insieme diversificato, dinamico, articolato nello spazio e nel tempo, con una vicenda storica lunga e peculiare, peraltro non astratta dalle cose esterne.”, si ricorre sovente, ancora oggi, alla pezza dei fenici per tappare i buchi della storiografia tradizionale, che fa acqua da tutte le parti. Neppure la scoperta clamorosa delle statue di Mont’è Prama, sottaciuta per decenni, e tornata alla ribalta in questi anni, ha abbattuto quel paradigma sempre più fragile: “L’unicità della necropoli e delle statue nel mondo nuragico e la mancanza di convincenti analogie con le contemporanee opere figurative del mondo italico ed ellenico mettono ancor più in evidenza l’esistenza di strette affinità tra le statue di Mont’e Prama e prodotti di ambiente siriano, per le quali si ipotizza l’arrivo di scultori di origine orientale.” si legge in una recente relazione della Soprintendenza, anche dopo che i risultati sui resti di tre inumati, condotti da due laboratori specializzati all’estero, relativi alle tombe più recenti, hanno permesso di retrodatare le ipotesi basate sui metodi tradizionali di circa due secoli, quindi con una forbice che va dall’IX secolo al XI secolo a.C. (nel caso che gli inumati non avessero mangiato alimenti di origine marina, anche fino alla fine del XII sec. a.C.). La rivalutazione delle fonti storiche, che mostrano i sardi in giro per il Mediterraneo fin dall’antichità, rappresenta la rottura di un paradigma che, ad esempio, non consentiva gli studi sulla questione degli Shardana, come sostiene Giovanni Ugas nell’introduzione al suo recente libro sull’argomento che ha sollevato, peraltro, polemiche e discussioni. Pertanto, il paradigma dei sardi chiusi, che non navigavano, fuori dalla storia, in perenne lotta tra loro, che assorbivano tutto da fuori, si sta sgretolando. Ecco dunque che in soccorso alla teoretica esterofila e dell’implosione perpetua, giunge oggi la retorica della deriva identitaria e della mitopoiesi. Secondo questa retorica, la rivalutazione della storia antica della Sardegna, altro non sarebbe che un tentativo pietoso di riscatto di un presente fallimentare, e una deriva identitaria, dovuta a fattori esterni, che siano strumentalizzazioni politiche o il timore derivante dalle migrazioni di questi tempi. Questa offensiva culturale si sostiene con la temperie decostruzionista che dalla filosofia è tracimata nell’antropologia, sull’invenzione e la costruzione di tutto quello che è tradizione, storia e identità. Sul piano della cultura egemonica, pertanto, questa strategia risulta efficace. Ed infatti il dibattito sulle prerogative storiche sarde è stato deviato dal dato storico all’antropologia e alla sociologia, giungendo infine alla creazione, in particolare, di un discorso oppositivo (l’antirazzismo) di grande impatto etico, difficilmente negabile. Ecco allora che nel documentario si pone in abbinamento, creando un effetto subliminale, la civiltà nuragica con il razzismo di due parvenu che, in epoca fascista, tirarono fuori una di quelle antropologie demenziali allora tanto di moda. Scimmiottavano l’antropologia italiana e tedesca dell’epoca, con il richiamo ad un purismo razziale sardo. Una cosa che in Sardegna non ha avuto nessun seguito, finita nel dimenticatoio della storia ma che, evidentemente, è tornata utile in questi giorni ed è stata ripescata dal magma informe del passato. Emblematico che i sardi, da oggetto del razzismo italico dei Lombroso e compagnia, siano diventati, in questo modo così artificioso, soggetto. L’accostamento tra la boutade dei sardo-fascisti e la civiltà nuragica introduce la narrazione del documentario. E’, se vogliamo, una accusa preventiva, che chiude la discussione. Il messaggio, che agisce su un livello inconscio, è categorico. Se non accetti la sovrapposizione della storia fenicia a quella sarda, scatta l’accusa preventiva. La cancellazione della storia sarda, esito di un processo di prevaricazione del centro nei confronti della località, con un tipico procedimento sostenuto dalla propaganda nazionale, trova così la sua giustificazione etica. La storia propriamente sarda scompare, sotto il pretesto nobile dell’antirazzismo. E diventa la consueta storia classica, quella dei dominatori. Si ribalta, in un certo senso, la frittata della memoria. Se lo stereotipo dei sardi immobili e isolati nella storia, infatti, è servito nel corso degli anni per inchiodare all’incapacità dei silenzi barbarici la civiltà nuragica, ora si vorrebbe fare intendere che quello stereotipo falso è una creazione dei sardi stessi, dell’essenzialismo sardista, un mito creato dai nazionalisti sardi per distinguersi, altezzosamente, dagli altri popoli mediterranei. Da una falsificazione all’altra, insomma, contenente la beffa di essere accusati di aver provocato quello che, in realtà, si è subito. Per un paradosso che tuttavia è tipico, la storia nuragica, tutt’altro che chiusa ma aperta e ben inserita nei processi storici mediterranei, dimostrerebbe, se considerata adeguatamente, che la civiltà non procede per contagio, ma con il confronto tra i popoli. Quindi è intrinsecamente antirazzista. Ma surrettiziamente, il documentario, perfettamente strumentale alla storiografia tradizionale, pone su di un dislivello questo incontro, su di un piano differente di valore le due civiltà. Quella sarda è “primitiva”, e si è sviluppata grazie ad un incontro fondamentale, quello con i fenici. Questa falsificazione ha dunque la sua efficacia, perché appone sulle prerogative storiche sarde da rivalutare una etichetta preventivamente elaborata che agisce automaticamente. Già sortisce il suo effetto, con l’accusa di mitopoiesi, di deriva identitaria ogni qualvolta una nuova scoperta rimette sotto la luce della storia la civiltà nuragica. Ora arriva anche l’accusa di razzismo. Il flusso culturale che si oppone all’emergere della storia sarda utilizza, pertanto, i mezzi più efficaci, e trova sempre il modo per rinnovarsi. Come questa offensiva egemonica possa trovare terreno fertile, lo si può comprendere leggendo Ulf Hannerz: “Lo stato … è responsabile della sistemazione della popolazione in categorie con differenti orizzonti culturali, dove coloro che hanno un orientamento più deciso verso i centri sia globali che nazionali sono anche quelli che ottengono più potere e più prestigio; e in generale, anche maggiori risorse materiali.”. Nel frattempo, aprendo il libro di testo di mia figlia delle elementari, scopro, nel 2017, che “A partire dal XVI secolo si sviluppò in Sardegna la civiltà nuragica, così detta per le costruzioni che più la caratterizzano, i nuraghi. Sotto il profilo artistico essa maturò tra il IX e l’VIII secolo, attraverso il contatto con diversi popoli: i fenici (da cui deriva la produzione di piccole statue in bronzo), gli etruschi e i micenei, come mostrano le ceramiche rinvenute nell’isola e l’uso costruttivo della falsa cupola.”. Ma guai a lamentarsi. Guai a dire che la formazione della cultura nazionale, in questo modo, è manipolata con dei clamorosi falsi storici. Mitopoiesi! Deriva identitaria! Se ti lamenti, è perché vuoi rivalutare la tua identità fallimentare di oggi, rifugiandoti in un passato mitizzato. Oppure, perché sei razzista.
Fiorenzo Caterini, cagliaritano classe '65. Scrittore, antropologo e ambientalista, è studioso di storia, natura e cultura della Sardegna. Ispettore del Corpo Forestale, escursionista e amante degli sport all'aria aperta (è stato più volte campione sardo di triathlon), è contro ogni forma di etnocentrismo e barriera culturale. Ha scritto "Colpi di Scure e Sensi di Colpa", sulla storia del disboscamento della Sardegna, e "La Mano Destra della Storia", sul problema storiografico sardo. Il suo ultimo libro è invece un romanzo a sfondo neuroscientifico, "La notte in fondo al mare".
Renatino e i misteri di Roma (di Giampaolo Cassitta)
Elio e le storie disattese (di Francesco Giorgioni)
The show must go on (di Cosimo Filigheddu)
Vincerà Mengoni. Però… (di Giampaolo Cassitta)
Ero Giorgia, e ricanto. (di Giampaolo Cassitta)
Piacere, Madame. (di Giampaolo Cassitta)
Se son fiori spariranno (di Giampaolo Cassitta)
Ma Sanremo è Sanremo? (di Giampaolo Cassitta)
Pacifisti e pacifinti (di Simone Floris)
Lo specchietto (di Salvatore Basile)
Da San Gavino a San Cristoforo, quando colonizzammo il Villaggio Verde. Ovvero il trasloco (di Sergio Carta)
Se riesco a buscare 5000 Lire ci vediamo allo Zoom, ovvero le pomeridiane in discoteca degli anni’80. (di Sergio Carta)
Papa Fazio (di Cosimo Filigheddu)
sardegnablogger ©2014 created by XabyArt - graphic & web design