Chissà se a qualcuno interessa leggere di un basket scritto da uno che neppure conosce bene le regole del basket. Il fatto è che alle volte lo sport esonda e si sottrae alla cerchia degli appassionati competenti. Entra nella categoria delle emozioni. Io ricordo che a scuola mi emozionava la matematica della quale non capivo niente. Ne intuivo la perfezione per me irraggiungibile. Mi davano 2, massimo 3, ma la rispettavo. E c’era anche la grande Juve di Sivori, Boniperti e Charles. Lì le regole le conoscevo un po’ di più rispetto a quanto ora sappia di basket, ma non è che fossi un grande intenditore. Conoscevo magari il nome degli attaccanti della Juve e forse ignoravo quello del portiere. Questo per dirvi il livello. Però mi ero lasciato prendere in pieno dal fascino di una squadra a cui noi ragazzini a cavallo tra le elementari e le scuole medie attribuivano valori confusi, ambizioni e altre cose che si incarnavano in quel formidabile terzetto bianconero ma che probabilmente avevano poco a che fare con il calcio. Ecco, mi succede un po’ così con la Dinamo. Non ne capisco niente eppure mi affeziono. Qualche anno fa, quando cominciò la salita, cazzeggiavo con un mio carissimo amico che la seguiva per il suo giornale (e spero continui a farlo perché è bravissimo, e non solo a seguire la Dinamo) e gli chiesi -Ma esattamente sino a dove può salire? -In via del tutto teorica? -Tu dimmi, poi vediamo se è teoria o pratica. E’ stato lui a ricordarmelo quando la Dinamo ha toccato il vertice dopo quella partita al cardiopalma che come tutte le altre partite dell’ultima parte del campionato ho seguito emozionatissimo alla tv. Senza capirne niente. Ma emozionato. Distinguevo le due squadre soltanto dai colori eppure riuscivo a incazzarmi almeno quanto i miei espertissimi vicini di poltrona, ai toni vagamenti antisardi dei telecronisti un po’ infastiditi dall’irruzione dei questi sassaresi nel “loro” campionato. In noi ignoranti scattano meccanismi strani ma elementari per i quali siamo portati ad appiccicare a una squadra alcuni importanti simboli. A esempio, la voglia di riscatto di Sassari. Una voglia che magari neppure esiste, una voglia che sarebbe più giusto esprimere parlando di città metropolitana e di relativi fondi, di classi politiche amorfe e assoggettate, di impresa senza voglia di produrre lavoro ma solo un po’di soldi per se stessa, di finanza nelle mani della politica, di cultura asfittica e sfilacciata eccetera eccetera. Però succede che con la Dinamo ti riposi il cervello dal pessimismo e mandi affanculo il poeta quando ti dice che il sabato è più bello della domenica perché la domenica pensi al lunedì. Io mi godo il sabato,poi la domenica e cerco di non pensare al lunedì come a una disgrazia. E spesso infatti mi godo anche il lunedì. E in questa rilassante ed entusiasmante ventata di ottimismo, Meo Sacchetti rappresentava un fascinoso emblema. Un po’ come il Sivori campione di uno sport di cui non conoscevo bene neppure le regole. E ora mi sento un po’ come quando Sivori passò al Napoli e di un colpo cessarono due miti. Quello di Sivori e quello della Juve. Non conosco Sacchetti personalmente, come invece a loro dire lo conoscono migliaia di sassaresi. Mi dicono in effetti che è uno che esce abbastanza e che non fa il sofistico quando in un ristorante qualcuno gli vuole stringere la mano. Spero che se un giorno lo dovessi conoscere, non si ripetano le circostanze in cui conobbi Sivori. Ai miei amici l’avrò già raccontato più di una volta, quindi quelli che lo sanno già possono anche smettere di leggere, l’articolo è finito. Negli anni Ottanta trascorse un’estate in un bel villaggio turistico vicino a Porto San Paolo, davanti a Tavolara, fondato da argentini. Io avevo affittato una casa da quelle parti, lo vedevo la mattina che correva e lo spiavo emozionato. Non giocava più da molto tempo, faceva il commentatore sportivo per una rete tv. Un giorno lo incrociai al bar del porticciolo al centro di un capannello di gente che di calcio ne capiva. Parlavano di non so che cosa e lui ascoltava con grande interesse, interloquendo ogni tanto con la sua passione. Io ebbi la sciagurata idea di mettermi in mezzo ai discorsi dei grandi parlandogli del suo passato, che evidentemente lui conosceva meglio di me. All’ennesima interruzione si girò verso di me per dirmi
-Ascolta a me, tu sai tutto di me ma di football non capisci un casso.
Proprio così, con le esse al posto delle zeta, da buon argentino. E credete che io mi sia trovato male? In una sorta di masochistico trasporto mi è venuta voglia di abbracciarlo: ma allora sei proprio come ti immaginavo, uno che quando deve dire una cosa la dice. Per fortuna non lo abbracciai altrimenti mi avrebbe picchiato. E non c’era neppure il suo amico Charles a prenderlo a schiaffi per tenerlo calmo.
Nato nel 1951, ottobre (bilancia, ma come tutti quelli della bilancia non crede nell'oroscopo). Giornalista dal 1973. Scrive anche altra roba. Ma gratis, quindi non vale.
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