Un gigante ha sempre un cuore ben disposto e più grande per contenere tutto. Ma anche i giganti, a volte sono soli. Soprattutto sul palcoscenico che prima li ha osannati e alla prima sconfitta ne nasconde gli onori ormai trascorsi e, lentamente lo abbandona. Su quel palcoscenico si sono spente, per Romeo Sacchetti detto Meo, le luci della ribalta sassarese. Le storie, anche le più belle, finiscono. Come un film appiccicoso, come una cartolina da luoghi lontani ormai sbiadita, come ritrovarsi dopo molto anni e rendersi conto che tutto è cambiato. Così, quelle parallele che parevano convergere si sono rimesse ognuno sul proprio solco ed è inutile incontrasi all’infinito perché, come osservava il grande Gualtiero Marchesi, ormai non gliene frega più niente. Lo sport, come la vita, è fatto di incontri e di generazioni. Ci sono quelli che sono nati sotto i ricordi di Sivori e di Mazzola e quelli con Baggio e Vieri. Ci sono stati Agostini, Moser, Gimondi, Anquetil, Marzorati, Meneghin, Mennea, Maradona. Campioni veri che, lentamente sbiadivano e lasciavano il posto ai nuovi eroi: Tevez, Pogba, Messi, Aru, Panetta, Feder.
Poi ci sono gli allenatori. Brutta razza. E, tra essi qualche genio. Ricordo Nereo Rocco, un burbero incredibile che all’ennesima richiesta sulla formazione del Milan, un giorno rispose al giornalista: “Oggi rivoluzioniamo tutto, Cudicini lo metto in porta e gli altri dieci fuori”. Poi Scopigno e il dilemma amletico di Comunardo Niccolai, il Trap e i suoi lunghi fischi, le invettive a Strunz, Mourihno lo special one, solo per restare nel calcio. Gente folle a volte, gente che, comunque, aveva sempre una strana idea in testa: vincere. Meo Sacchetti , pugliese di Altamura, comincia a giocare al Basket nel 1977. Da giocatore vince gli europei a Nantes nel 1983 e un argento alle olimpiadi di Mosca nel 1980. Meo arriva a Sassari nel 2009, quando la Dinamo era una squadra di basket da un avvenire incerto, pasticciato. La speranza era fare il salto nel parquet che conta. Quello della serie A. Poi sappiamo tutti come sono andate le cose: dalle lacrime di rabbia per la sconfitta ai play-off contro Cantù alla vittoria in Coppa Italia, Supercoppa e scudetto. Gli allenatori sono costruiti per vincere. Ma non solo. Sarebbe troppo semplice. Meo Sacchetti ha uno strano modo di giocare le partite: è un coach non aggressivo, mai autoritario, non disegna spasmodicamente nulla nella lavagnetta durante gli intervalli. A volte non parla neppure. Eppure quegli strani giocatori, apparentemente male amalgamati, hanno fatto l’impresa. Lui dopo la conquista dello scudetto, contrariamente alle aspettative, è rimasto. Molti giocatori, quelli delle lacrime vere, quelli del pick and roll, dello scambio tra i piccoli e i lunghi, sono andati via. Meo doveva ricostruire una squadra come quella appena evaporata, capace di ballare il tango al ritmo del Rock and roll. Non ce l’ha fatta e non era semplice. Ma non dite per favore che le storie, anche le più belle, finiscono. Non è così. Con Meo c’eravamo tanto amati, è vero, ma l’amore e il rispetto rimarranno per sempre. Mica ci ricapita tanto presto uno che costruiva la squadra intorno agli uomini, agli sguardi e ai silenzi intensi. Poi, quando meno te l’aspettavi diceva, quasi sussurrando: “”Questa partita ve la dovete prendere, conoscete i passi, la musica e il ritmo: ballate. “ Grazie Meo, se l’amore è bello fin che dura questo amore non può essere definitivo, ma solo definito dai contorni e dai ricordi. E la memoria è quella raccontata. Passeranno i vecchi campioni, cambieranno i nomi degli atleti e degli allenatori ma quando tra molti anni qualcuno dirà “Meo Sacchetti” tutti ritorneranno al tango ballato come un rock and roll, alle coppe e allo scudetto vinto a Reggio Emilia nel 2015, in continente. Tutti diranno: quello è stato un vero e grande atto d’ amore. Non sarà l’unico, ma l’amore lascia sempre lo spazio all’immensa tenerezza. Ciao Meo, buona strada e, come si dice tra i campioni: “Mi raccomando, non perderci di vista.”
Nato a Oristano. padre gallurese, madre loguderse, ha vissuto ad Alghero, sposato a Castelsardo e vive a Cagliari. Praticamente un sardo DOC. Scrive romanzi, canta, legge, pittura, pasticcia e ascolta. Per colpa del suo mestiere scommette sugli ultimi (detenuti, soprattutto) e qualche volta ci azzecca. Continua a costruire grandi progetti che non si concretizzano perché quando arriva davanti al mare si ferma. Per osservarlo ed amarlo.
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