Per molti anni ho considerato Berlusconi il male assoluto e ne sono stato ossessionato.
In quello stesso tempo ero altrettanto sicuro che il suo nemico Marco Travaglio fosse il più libero e coraggioso portavoce della libertà.
Poi ho iniziato a occuparmi sempre meno di Berlusconi e sempre più dell’informazione di Travaglio.
Oggi non sono più tanto sicuro che Travaglio giovi a questo mondo più di quanto gli abbia giovato Berlusconi.
Ma, come dice il grande storico Guido Melis, la storia va lasciata raffreddare prima che si possano emettere dei verdetti, comunque mai definitivi.
Di Berlusconi credo di avere la stessa opinione che di lui maturò, infine, Indro Montanelli: un ritratto dell’editore composto dalle tante impressioni raccolte nel diario del grande giornalista curato da Sergio Romano.
Agli occhi di Montanelli, Berlusconi è stato il terribile tiranno che, piombato di sorpresa nella redazione de Il Giornale in una mattina del 1994, impose un repentino cambio di linea editoriale funzionale alla sua discesa in campo.
Senza nascondersi dietro perifrasi o eufemismi, Montanelli considerava Berlusconi “il principe dei bugiardi”: forse intendendo accostarlo all’augusteo primo tra i pari, per alludere ai tanti altri bugiardi che il cavaliere aveva attorno.
Certamente dicendo che la doppiezza di Berlusconi aveva anche un carattere patologico, essendo lui talmente abituato a mentire da credere esso stesso alle frottole che raccontava.
Però Berlusconi fu anche, disse Montanelli, un editore esemplare per quindici anni, almeno fino a quanto non gli venne lo sghiribizzo della politica e decise che i redattori del suo giornale dovessero diventare suoi dipendenti, nell’accezione più degradante dell’aggettivo.
Abbiamo letto tutti Il venditore di Peppino Fiori – a proposito, non lo si trova più da nessuna parte – e tutti sappiamo della Banca Rasini, dello stalliere Mangano, delle frequentazioni di Dell’Utri, dell’ultima intervista di Borsellino e di quell’ascesa finanziaria prepotente e difficilmente spiegabile.
Una volta intervistai Nardino Degortes, socialista, ex assessore regionale e più volte amministratore di Olbia. Mi raccontò di quando, nel 1983, ricevette a casa un voluminoso pacco indirizzatogli dalla Fininvest: era un videotelefono, giocattolo molto costoso e al tempo rarissimo.
Degortes era consigliere comunale e pochi giorni prima Paolo Berlusconi e Fedele Confalonieri erano stati in municipio per caldeggiare il progetto immobiliare di Costa Turchese, la cui approvazione poteva avvenire solo con voto a maggioranza del Consiglio.
Il videotelefono non lo ebbe solo Degortes, lo ebbero tutti i consiglieri comunali di Olbia.
Ma queste ambigue tecniche di persuasione non coricarono manco il pelo alla reputazione di SIlvio, che a Olbia venne ed è visto come un modello, un esempio, un’entità soprannaturale: Nizzi, il più potente sindaco che Olbia abbia mai avuto, si riferiva a lui usando con sacrale deferenza il pronome “egli”.
Il medico Nizzi arrivò in politica a 37 anni senza – lo disse lui – saper distinguere una delibera da un’ordinanza. Bastò un incontro casuale a villa Certosa, un giorno che il padrone di casa stette male e fu necessario cercare un sostituto del medico di fiducia, quel giorno irreperibile.
Olbia lo fece cittadino onorario e il resto d’Italia ha continuato a credergli per un ventennio.
Però io ho smesso di giudicare chi, pur non credendogli, ha continuato a vedere in lui una speranza.
Berlusconi ci indusse a ritenere divertenti le scemenze del Drive in sottolineate da risate registrate, ci ha portato al governo i nazionalisti xenofobi, ha proposto un’immagine della donna oggetto passata attraverso Colpo Grosso, Non è la Rai (non alludo solo alle minorenni scosciate, ma anche all’auricolare con cui veniva teleguidata la Angiolini), Striscia la notizie e le volgari battute sessiste su Rosy Bindi.
Quelle sì sessiste, non come certe innocue spiritosaggini che oggi scatenano le Fatwa del femminismo estremista.
Berlusconi raccontò all’allora giornalista Boris Johnson di magistrati antropologicamente diversi, come sempre facendola fuori dal vaso e svilendo un problema, quello di una casta spesso colta da deliri di onnipotenza, che poteva essere più efficacemente affrontato con robusti argomenti e senza la solita iperbole fuori luogo.
Volevo scrivere un pezzo per alleggerire la posizione di un peccatore impenitente, invece cammin facendo mi sono reso conto di non avere molti argomenti per compiere la mia missione.
Berlusconi è stato il veicolo della nostra americanizzazione. Ma la nostra americanizzazione sarebbe arrivata comunque e i razzisti al governo li avremmo avuti ugualmente, perché mica solo l’Italia è andata in quella direzione.
Il fatto è che in questi anni ho conosciuto molti avversari di Berlusconi e non li ho trovati migliori di Berlusconi.
Ho conosciuto razzisti comunisti e sottosegretari di sinistra pericolosamente vicini alla criminalità organizzata. Ho conosciuto giornalisti nemici di Berlusconi che, dentro le redazioni, applicavano pari pari gli stessi editti bulgari toccati a Travaglio, Biagi e Luttazzi.
Ho conosciuto direttori di giornali nemici di Berlusconi che avevano delle donne la stessa bassa concezione che ne aveva Berlusconi, però non lo dicevano e facevano in modo che non si sapesse in giro.
E ho visto diventare inaccettabilmente forcaiola l’informazione di quello stesso Travaglio che, una volta, mi sembrava l’ultimo avamposto dell’informazione libera.
Le campagne di stampa con lapidazione dell’indagato, ecco qual è stata la più violenta forma di dittatura degli ultimi anni.
L’hanno ignobilmente compiuta i giornali del defunto con il metodo Boffo e i calzini del giudice Mesiano, ma erano forse più violente del pestaggio sui processati di Bibbiano o più miserabili dell’appellativo “nano pelato” con cui certi simpatici umoristi si rivolgevano a Berlusconi.
Possiamo finalmente dirlo, oggi, che anche Mani pulite ad un certo punto partì per la tangente – mi si scusi la battuta – diventando una specie di processo di piazza degno della Santa Inquisizione?
Nel 1994, tutti gridavano al regime e all’imminente dittatura. Ventinove anni dopo, io posso scrivere questo pezzo per dire che Berlusconi è stato quel che è stato, cioè nulla più che un bravissimo piazzista capace di strappare persino il lutto nazionale perché a molti ha fatto credere di essere uno statista.
Non avrò nostalgia di lui e le commemorazioni commosse mi sembrano persino ridicole, fatta salva la pietà umana che si deve ad ogni essere umano che lasci questo mondo.
Berlusconi lascia un’Italia peggiore di quella che ha trovato, anche per la sua pessima influenza.
Ma in questi trent’anni il resto, attorno a lui, non è stato molto migliore di lui.
Nato nel 1971 ad Arzachena ed ivi smisuratamente ingrassato negli anni seguenti, figlio di camionista e casalinga. Titoli appesi alle pareti: laurea in Lettere moderne all'Università di Sassari, iscrizione all'albo dei giornalisti professionisti, guida nazionale di mountain bike, presidente della Asd Smeraldabike, direttore della testata Sardegnablogger. È stato redattore di tre diversi quotidiani sardi: dal primo è stato licenziato, gli altri due sono falliti. Nel novembre del 2014 è uscito il suo primo romanzo, "Cosa conta".
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