Il medico legale di Anita Garibaldi tornava a casa dopo una giornata faticosa nella Chirurgia dell’ospedale di Ravenna. Faceva caldo, anche nel buio della sera. Un’estate come quella di cinque anni prima, quando i banditi di Garibaldi si aggiravano a Comacchio e il professore era stato tirato per i capelli nella storiaccia della perizia sul corpo di quella Anita, la moglie del capo della banda. “Moglie, poi”, pensò con una smorfia il professore, mentre saliva col fiato grosso le scale verso l’appartamentino all’ultimo piano, dove viveva solo. Sua moglie se n’era andata in quell’estate del ’49. Gli avevano detto che si era rifatta una vita in America. “Proprio da dove veniva quella specie di moglie del bandito – si disse il professore, mentre infilava la chiave – Altro che moglie, concubina sarà stata, gente senza Dio…”. Si raggelò, la grossa chiave gli cadde con fracasso sulle travi del pavimento e lui la raggiunse ginocchioni. Anita, altera, gli veniva incontro dal buio della stanza. Camminava lentamente, come volasse, senza uno scricchiolìo del vecchio pavimento, e si arrestò appena in tempo per non calpestare il rivoletto di urina del professore. Che riuscì soltanto a pensare: “La porta…” e si volse a cercare la salvezza. Fu allora che lo vide immobile sulla soglia, gli stivali puliti, il poncho, la barba ben curata, il cappello e quella voce terribile che trascinava a vincere o a morire: “Non si muova, professore, non parli. Stia a sentirla e risponda soltanto se viene interrogato”. Lei aveva un timbro rauco, un indefinito accento di terre lontane, parlava senza rabbia, decisa come un giudice che volesse sapere prima di sentenziare: “Perché hai detto che gli amici del mio uomo mi avevano strozzato, perché hai mentito?”. Il medico legale restò in silenzio, fino a quando lui non lo toccò lieve e minaccioso con la punta dello stivale. “E’ stato un errore _ balbettò – Poi ho ammesso di essermi sbagliato”. Anita parlava senza guardarlo: “Non è stato un errore, medico. Dimmi ora perché hai mentito o non lo potrai più dire neanche al padreterno perché ti porto con me all’inferno”. Il professor Luigi sentì che l’unico modo di raggiungere quel paradiso che lui meritava per la sua vita specchiata e ingiustamente infelice era quello di dire la verità. “E’ stato quel funzionario dello Stato _ disse piagnucolando -. Così mi ha detto di essere, ma parlava come un prete… veniva da Roma. Disse che dovevo calunniare la tua memoria, che era mio dovere di cristiano, che il tuo esempio di donna libera, uguale al tuo uomo, con le stesse passioni e gli stessi diritti, era più pericoloso persino delle guerre di… del…” si volse a sogguardare timoroso l’uomo che torreggiava silenzioso sulla soglia. Poi sentì un dolore atroce al ventre che risalì nel petto, sino alle spalle. Tentò di respirare e cadde con la faccia sul rivolo che al caldo del sottotetto cominciava a seccarsi. “Sembra morto”, disse lui scuotendo il corpo con lo stivale. “Stecchito – confermò lei – Di paura” “Meglio, fatica risparmiata”, commentò lui staccandosi la barba e riponendo il coltellaccio che per tutto il tempo aveva tenuto nascosto dietro la schiena. “Eppure ancora non capisco perché ci tenevi così tanto a fargli la pelle”, le disse ancora mentre scendevano le scale. “Lo dovevamo a quei due: a quella morta e a quello vivo. Da quando siamo fuggiti da Roma campiamo recitando la loro storia in tutte le piazze. Prima eravamo due saltimbanchi e dopo che li abbiamo conosciuti sulle barricate siamo diventati due attori veri. Con quel poncho e quella barba finta stiamo facendo più soldi di un vescovo”. “A proposito, bisogna fargli avere del denaro. Si dice che stia organizzando qualcosa al Sud”.
Nato nel 1951, ottobre (bilancia, ma come tutti quelli della bilancia non crede nell'oroscopo). Giornalista dal 1973. Scrive anche altra roba. Ma gratis, quindi non vale.
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