A Siligo c’era una strega che si chiamava Julia Carta. Cioè, non era una strega, era una ricamatrice che curava la gente con le erbe. Il parroco la denunciò e lei finì nelle grinfie dell’inquisizione. Poi c’è un’altra Julia, la mia Julia, quella che un giorno mi è comparsa tra le rovine del Castello di Sassari e mi ha raccontato la sua vita e il suo racconto, senza cambiare una virgola, l’ho riportato in una storia per il teatro. Di Julia Carta ha soltanto il nome, perché la mia Julia di Siligo, è davvero una strega. Una donna vera. Libera, tentatrice e tentata, consapevole, colta, invincibile nella sua forza che è quella di conoscere l’umanità e il suo antico patto con la natura. Questa Julia, la mia Julia, centinaia di anni fa ha reso magico il paese di Siligo, dove respiri il vento vero della Sardegna che streghe e stregoni hanno tenuto nascosto per non farsi rubare, anche quello, da generazioni di conquistatori. E ho sempre creduto che ai giorni nostri almeno due grandi di Siligo abbiano conosciuto e conoscano questi segreti, la cui luce misteriosa ogni tanto buca il velo e guida le azioni dei geni. Parlo di Maria Carta e di Gavino Ledda. Provate a pensare alla genialità di “Padre padrone”, una condizione esistenziale antica quanto la cultura pastorale mediterranea e diffusa in ogni luogo e in ogni tempo di questa civiltà. Ma di cui nessuno (compreso Omero) aveva apprezzato certi aspetti dell’essenza antropologica e lirica sino a quando non lo ha fatto Gavino Ledda. E se ci parli, con Gavino, ti accorgi che questa caratteristica del genio – capire il senso di ciò che tutti abbiamo sotto gli occhi senza vederlo – lui ce l’ha sempre. Come quando di ritorno dalla visita invernale a un gigantesco e desolato villaggio turistico della costa, ha avvertito l’urgenza di telefonarmi di notte: “Cosimo, devi vederlo: è grande più di Siligo e non ha neppure il sindaco!”. E poi Maria Carta, morta nel settembre del 1994. Aveva 60 anni e un tumore che la consumava ogni giorno da settecento giorni. Eppure una mia amica che la vide in quelle ultime ore, mi giura che era bella come sempre. Era ancora Medea e Didone, era Pentesilea, la regina delle amazzoni, ed Emma Bovary, la peccatrice-vittima più sensuale che io conosca. Maria Carta non era soltanto la Sardegna. Era tutto il mondo di cui siamo fatti. I suoi capelli odoravano di mirto e ulivo, ma ci trovavi impigliati anche i granelli delle sabbie magrebine. Nei suoi occhi si rifletteva il trigu dorato di Siligo, ma anche il mare azzurro delle isole greche e il sole accecante dell’Andalusia, lo stesso che arroventa il Marocco. Come non pensare che in questa donna si sia incarnata tutta l’antica, saggia e sensuale magia di Julia? Giuseppe Dessì nel 1974 disse di lei: “La sua voce pura riempie da sola spazi profondi dove rivive la Sardegna al limite della preistoria. E quando tace riassorbe in sé questi spazi, questo tempo insondabile”. C’era chi pensava che tutto questo in lei fosse naturale, una privilegiata dalla natura. Può darsi, ma sapeste in quale cornice di studio severo e di sacrifici avesse racchiuso queste sue doti. Studentessa all’Accademia di Santa Cecilia, approfondì la storia della musica popolare, ricercatrice di etnografia, studi non solo di canto ma anche di recitazione. Una sua ricerca e una sua interpretazione dei canti gregoriani stupì etnografi e musicisti e fece dire loro che Maria Carta aveva scoperto l’essenza vera di questo antichissimo ritmo liturgico. Cantò con Amalia Rodrigues e recitò Euripide diretta da Franco Enriquez, ma non si fece indietro quando le chiesero di cantare “Deus ti salvet, Maria” a Canzonissima. Consigliera comunale del Pci a Roma, con la sua intelligenza politica contribuì a inaugurare la grande stagione dell’ente pubblico “mecenate” della cultura. Affascinò persino Francis Ford Coppola che la volle in uno dei suoi Padrini. E soprattutto ha fatto conoscere al mondo la musica della Sardegna e la sua lingua immortale romanza. Mario Luzzatto Fegiz, uno dei più grossi esperti italiani di musica leggera, era certo che in questo campo se lei avesse voluto avrebbe senz’altro sfondato. Ma scelse di non tradire mai quella cultura di amore e di morte, di festa e di tragedia. E la sua voce arcana che mette insieme alle moderne orchestrazioni le musiche antiche riposte nel nostro inconscio collettivo di popolo, penso che vivrà sino a quando vivrà il nostro mondo.
Nato nel 1951, ottobre (bilancia, ma come tutti quelli della bilancia non crede nell'oroscopo). Giornalista dal 1973. Scrive anche altra roba. Ma gratis, quindi non vale.
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