I primi anni dopo l’attuazione della “Legge Basaglia” non furono facili per i matti. Si ritrovarono fuori del manicomio che, si, era un’istituzione repressiva, ma dava vitto e alloggio , acqua e sapone, riscaldamento invernale, cure se non volontarie.
Erano elementi di stabilità, organizzazione sgangherata ma stabile, che di colpo venivano meno, ed era troppo per gente che non aveva più una famiglia in cui rientrare, o per cui la famiglia era la fonte di una vita torturata. Quindi giravano per le strade, qualcuno faceva colletta, molti si coricavano nei portoni , tra cui uno che emergeva da un groviglio nero di coperte popolate di insetti per andare in banca – nostro cliente, dormiva nell’androne – con un libretto da 130/mln che controllava ogni giorno.
A Sottoripa, in Via del Campo, in via Pré, li riconoscevi dall’andatura sbilenca, parlavano da soli, occhio fisso, sempre incazzati.
Una smunta, gialla di epatite, malediceva la rivale in amore, instancabile.
Una volta salì al capolinea del bus un nano in divisa da arbitro con una pila accesa sistemata sul berretto da baseball, la busta con la biancheria in cui una radiolina sparava un heavy metal. Aiutato dalla statura lui ballava felice piroettando tra i corrimano, ma, con che la gente saliva, gli spazi di felicità si riducevano ed il nervosismo aumentò. Ne fece le spese un distintissimo anziano in doppio petto che si beccò un tremendo calcio nelle palle. Alla vittima che ansimava stesa sul pavimento toccarono altre minacce, con la pila che illuminava il volto sofferente e accuse di aver rovinato le danze. Prima che facesse giustizia sommaria minacciai all’arbitro un elettroshock . Allarmato, mi prese sul serio e scese.
Ma fu una piccola silenziosa strage. Molti di quelli che di notte non si rifugiavano nel giardino del manicomio finivano sui binari. Ricordavano da dove erano venuti e tentavano di tornare. Aspettavano un treno che per loro non passava mai. Morivano arrotati, e l’indomani il Secolo XIX pubblicava la foto dei volti che avevo visto ciondolare, mendicare, mangiare per terra. Insomma, ci volle del tempo prima che iniziasse a funzionare una rete di assistenza.
A Rizzeddu alcuni locali erano diventati casa famiglia, e lì, su diverse basi, erano tornati molti che non avevano dove andare.
A Sassari la banca distribuiva le pensioni di invalidità che tutti, puntualissimi, venivano a ritirare allo sportello di Via Cagliari.
Erano “seguiti”, che non significa necessariamente sedati, alcuni allegri, come la signora che vantava le doti virili del re del Belgio “mio marito Baldovino, morire mi fa” e si facevano riconoscere per certe caratteristiche che nessuna malattia mentale può cancellare.
Un giorno di dicembre, freddo con una pioggia che Dio la mandava, arrivò il sussinco. Grosso, ciccione, con i riccioli che grondavano, una maglietta di lana che scopriva un palmo di pancia fino alla cintura dei pantaloni.
Buongiorno! Piove eh? E allora, cosa ne dice lei di un trenino che porterebbe l’acqua da Canaglia a Sorso?
Il mio collega, cauto: Be’, potrebbe essere una buona idea…
Visto? E a me per un secchio d’acqua mi hanno dato una settimana di camicia di forza.
In questa categoria sono riuniti una serie di autori che, pur non facendo parte della redazione di Sardegna blogger collaborano, inviandoci i loro pezzi, che trovate sia sotto questa voce che sotto le altre categorie. I contributi sono molti e tutti selezionati dalla redazione e gli autori sono tutti molto, ma molto bravi.
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