A vedere quel colosso di uomo alto almeno 1.90 cm con una stazza da oltre un quintale non lo diresti mai che quando è tornato da Mauthausen pesava 47 kg. Lo racconta Ennio Trivellin, seduto su una sedia che a reggere tutto quel peso sembra una di quelle degli asili Montessori. Rovista tra un dolore che non è scemato col passare degli anni, anzi, quella sofferenza ci ha fatto un’alleanza col tempo e si è sedimentata. Un drammatico mausoleo di afflizione con cui dovrà convivere fino alla fine dei suoi giorni.
– Un viaggio pesantissimo, stipati come animali. Poi ci rovesciarono dentro grandi capannoni che talvolta usavano anche come camere a gas. Ci spogliarono, ci raparano a zero, ci dettero vestiti a righe bianche e blu, ci scaraventarono all’aperto. Mentre lavoravamo vedevamo passare carretti carichi di cadaveri. Dopo venti giorni venni spostato a Gusen I, blocco 16. –
C’è fatica nella sua esposizione. Guarda il soffitto e fa respiri profondi per ricacciare indietro le lacrime. Le sue parole inciampano. Non sono i colori sbiaditi della vecchiaia a rallentare il racconto, bensì la mole di dolore all’interno del quale deve farsi strada.
– La fame col tempo ti rende idiota, strappa i pensieri e ti trasforma in un essere mansueto. Il resto lo fa il freddo quando hai sempre vestiti di carta addosso. Dodici ore di lavoro al giorno nei capannoni. Una pausa pranzo per mangiare un brodo di rapa. Cinque o sei ciotole per trenta persone e se non facevi in tempo a farti passare la scodella dal compagno che aveva terminato il pasto per correre a prendere la tua razione, quel giorno digiunavi e mangiavi l’indomani. –
Il signor Trivellin prosegue minuzioso, è un resoconto lucido e dettagliato il suo. Troppo particolareggiato per un uomo di 87 anni che, probabilmente, ha scordato le date di compleanno dei figli, ma narra dettagli e particolari che la memoria strapperebbe anche a un trentenne.
Una platea commossa e rapita ha ascoltato con lo stomaco stretto ed io ho anche cercato di fotografarla tutta quella partecipazione emotiva, che mi sembrava si potesse condensare in un’immagine.
Un ritratto dei sentimenti traboccanti in quella sala, dell’emozione delle giornaliste davanti a me che asciugavano le lacrime, dei miei alunni che non hanno lanciato una sola occhiata al display del cellulare, delle presenze che ascolatavano coi pungi chiusi.
Poi mi si sono allagati gli occhi e non ho fotografato un bel niente.
La piccola Romina nasce nel '67 e cresce in una famiglia normale. Riceve tutti i sacramenti, tranne matrimonio ed estrema unzione, e conclude gli studi facendo contenti mamma e papà. Dopo la laurea conduce una vita da randagia, soggiorna più o meno stabilmente in varie città, prima di trasferirsi definitivamente ad Olbia e fare l’insegnante di italiano e storia in una scuola superiore. Ma resta randagia inside. Ed è forse per questo che viene reclutata nella Redazione di Sardegnablogger.
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