Leggo sui giornali che una concorrente di Masterchef trattata dai giurati con malcelata degnazione perché rappresentava una cucina buona ma popolare, ha detto agli illustri cuochi che la giudicavano: “Voi fate cose che la gente normale non capisce e non mangia”.Mi ha fatto lo stesso effetto del bambino di Andersen che stupito, sincero e immensamente potente nella sua innocenza, suscitò un pandemonio nella città denunciando: “L’imperatore è senza vestiti”.Io non voglio fare il populista che riduce ogni cosa a semplice anche quando è complessa. Ci sono certe teorie, certi ragionamenti, certe scelte politiche, certi libri, certi film che necessariamente sono complessi, hanno bisogno di essere spiegati e di una certa applicazione per essere capiti, quindi provocano una necessaria selezione del pubblico che ne è interessato. Ma non so quanto la cucina appartenga a una delle precedenti categorie o quanto invece la scefizzazione della cucina non sia piuttosto un mainstream (altro indizio di populismo a mio carico) che serve a tenere in piedi l’illusione di una diffusa gurmetizzazione dei popoli occidentali.In parole parole povere, ne ho le balle piene di vedere pizzerie e paninoteche piene di utenti che davanti a un “calice” (“bicchiere” non si dice più) di vino, prima di berne un sorso, ci immergono il naso qualche volta gocciolante specie nella brutta stagione, socchiudendo gli occhi, aspirandone aromi misteriosi, guardandosi intorno per assicurarsi che il gesto sia stato notato, ne assumono poi un pochino e lo tengono in bocca, ne vedi gonfiarsi prima la guancia sinistra e poi quella destra, te lo immagini passare dalla lingua al palato ancora unti dell’ultimo boccone di Completa con capperi e acciughe e la cosa ti fa un po’ di impressione, infine cadere giù per l’esofago mentre l’utente continua a fissare il bicchiere, cercando con viso severo trasparenze e opacità. Mi viene la tentazione di dirgli “Guarda che era Coca Cola”, con la fondata speranza di vederlo sussultare imbarazzato. Mi ricordo di avere letto anni fa su un settimanale la storia di una “degustazione cieca” allestita in una località svizzera dove vennero fatti assaggiare a una titolatissima giuria i prodotti della cioccolateria artigianale di quel Paese, compresi i cioccolatini ripieni. Nessuno sapeva da quale azienda provenissero i campioni in esame e il più alto numero di voti per originalità del prodotto, per le delicate essenze di sapori e profumi contenuti nel mélange tra cioccolato e liquore, per la novità assoluta del prodotto la ebbe un misterioso boero che poi si rivelò essere un Mon Cheri Ferrero, del quale puoi dire che è buonissimo, io ne vado pazzo, ma non che è nuovo.Quando dico queste cose a un mio amico che ormai fa il gourmet di professione, siccome è uno dei pochi gourmet al mondo che sia pure spiritoso, di solito si limita a dirmi “non capisci un cazzo” e cambia discorso. Una volta ha provato a spiegarmi che l’alta cucina è come l’alta moda: ha un effetto trainante anche verso l’industria della sartoria industriale e popolare. Un’altra volta mi ha preso a lingua un po’ più seriamente:-Ti ho sentito una volta difendere tutta la Recherche di Proust contro uno che faceva l’iperintellettuale controcorrente asserendo di non averla mai letta perché è inutile e noiosa, mentre tu sostenevi che pur non essendo accessibile a tutti, pur richiedendo un certo sforzo nella lettura, è uno dei più alti capolavori della letteratura di tutti i tempi e che volenti o nolenti bisogna averla letta.-E’ vero, l’ho detto e lo penso. Non andare avanti.Non sapevo cosa rispondergli. Ma quando vedo in tv uno che anziché farsi una pasta e fagioli con i ritagli di maiale, fa una crema di essenza di legumi e con un frullino incorpora una nuvola di grasso di Serrano e ti dice che è una “rivisitazione” della pasta e fagioli, penso: “Be’, allora che vada affanculo pure Proust”.
Nato nel 1951, ottobre (bilancia, ma come tutti quelli della bilancia non crede nell'oroscopo). Giornalista dal 1973. Scrive anche altra roba. Ma gratis, quindi non vale.
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