Quella notte di marzo del 1962 dormii tutto il tempo. Dalle 23 della sera prima, quando in camera da pranzo come di solito venne spento il televisore e aperto il divano letto che era il mio letto, sino alle 7,30 della mattina successiva, quando qualcuno mi svegliò ché dovevo prepararmi per andare a scuola. Dieci anni, quinta elementare. Tutto come ogni giorno. L’unica differenza era la finestra accanto al mio divano letto. I vetri non c’erano più ed erano sparsi in tutta la stanza, qualche pezzetto sulla mia coperta. Mi sembra che anche qualche asticella delle persiane fosse divelta e senz’altro, questo lo ricordo bene, un’anta era appesa a un solo cardine e pendeva sulla ribaltina a muro che era lo scrittoio sul quale facevo i compiti. Non c’era grande spazio a casa mia e quando finivo i compiti rimettevo giù la ribaltina tenuta orizzontale da due ganci mobili inchiavardati al muro e così uno se voleva si poteva affacciare alla finestra e guardarsi la facciata di Palazzo Ducale. Perché io abitavo proprio davanti alla sede del Comune di Sassari e il mio divano letto era distante pochi metri dalla lapide che ricordava il 25 luglio del 1943. Quella notte i fascisti avevano sistemato una carica di dinamite sotto la lapide in questione e oltre a essa avevano fatto saltare un bel po’ di infissi del Palazzo e della modesta casa prospiciente, che molto prima di appartenere alla mia famiglia aveva ospitato la servitù del sanguinario Duca dell’Asinara, quello che aveva fatto costruire Palazzo Ducale. Ma a me di questo passato me ne fotteva poco. Mi pesava un pochino l’angustia della casa, tanto che quando abbassavo la ribaltina a segnalare che avevo finito i compiti, correvo subito in strada, dove lo spazio non mancava. E siccome, dato che quando stavo in casa facevo casino, ero incoraggiato a stare in strada e quindi a ben vedere in fondo l’angustia della casa più che pesarmi mi faceva piacere. Comunque erano problemi che non mi toglievano il sonno, tanto che anche quella volta dell’attentato mi accorsi che era accaduto qualcosa soltanto il mattino dopo, quando mi alzai e mi dissero di non camminare scalzo perché in terra era tutto pieno di vetri rotti. Mi spiegarono che avevano messo una bomba a pochi metri da me, che la finestra che avevo accanto al cuscino quasi era stata scardinata, che i vetri erano scoppiati investendo anche me, che la notte mia madre terrorizzata me ne aveva tolto qualche frammento dai capelli (allora ne avevo in abbondanza, di capelli, non di frammenti) controllando che non mi fossi fatto male e che, in tutti questi accadimenti, l’unico indizio di coscienza che avevo dato era stato quello di girarmi infastidito nel sonno dall’altra parte mentre la mia famiglia si assiepava alla finestra aperta alle 3 del mattino per curiosare sul lavoro dei vigili del fuoco e della polizia. Sono stato preso da questa macchina del tempo rileggendo poco fa certi “Scritti sul Fascismo” di Antonio Pigliaru. Parlava di quell’attentato del marzo del 1962 e di quanto fosse pericoloso l’atteggiamento di chi ne sminuiva la portata, rinunciando “alla pedagogia della verità”. E si chiedeva: “Cosa abbiamo fatto noi della generazione di Mussolini per tramettere ai nostri fratelli minori, a questi nostri primi figli, la lezione della nostra esperienza, il bilancio reale della nostra giovinezza?”. Non so cosa abbia fatto quella “generazione di Mussolini”. La mia, come raccontavo, dormiva. E dorme ancora.
Nato nel 1951, ottobre (bilancia, ma come tutti quelli della bilancia non crede nell'oroscopo). Giornalista dal 1973. Scrive anche altra roba. Ma gratis, quindi non vale.
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