Il 17 gennaio del 1991 mi trovavo a Roma per lavoro. Alloggiavo presso l’Hotel Argentina, nel cuore della capitale, a due passi da Piazza Navona. Insieme ad altri colleghi nei giorni precedenti si discuteva della possibilità che gli Stati Uniti d’America, con alcuni stati europei, potessero sferrare un attacco all’Iraq che il 2 agosto del 1990 con il suo esercito aveva invaso il Kuwait. La nostra preoccupazione era legata all’assurdità di una nuova guerra dove, peraltro, potessimo partecipare anche noi come esercito alleato. Eravamo una generazione che non aveva conosciuto le atrocità del conflitto mondiale, non avevamo nel nostro DNA di poco più di trentenni l’idea che le questioni, anche le più difficili, si dovessero risolvere ricorrendo alle armi. Quei giorni che precedettero l’inizio del conflitto li passammo – dopo il lavoro – a passeggiare tra le strade del centro storico di Roma, tra il Pantheon e fontana di Trevi, tra via del Corso e l’altare della Patria. C’era una strana atmosfera in quella Roma sempre caciarona, sempre strascicata, sempre dolce e sfrontata. Si respirava il rumore della sospensione e dell’attesa. Nessuno credeva che la guerra potesse iniziare: le forze in campo erano decisamente impari a vantaggio dei “nostri” e la diplomazia suggeriva una trattativa. Almeno era quello che pensavamo con i miei colleghi ed era quello che era nel comune sentire di tutti. Non c’era internet e non c’erano i social, le discussioni erano circoscritte al dopocena nel salotto dell’albergo dopo aver passeggiato tra le strade soffuse di Roma. Quel 17 gennaio ci svegliammo con la diretta TV, quando l’aviazione americana iniziò a bombardare l’esercito iracheno. Le nuove tecnologie, come ad esempio le telecomunicazione satellitari, permisero ai giornalisti della CNN di mostrare le immagini del cielo di Baghdad solcato dai proiettili traccianti illuminando i nostri schermi di nero e di verde brillante. La guerra era cominciata ed entrava nelle nostre case. Furono quelli immagini a far capire la gravità delle cose, furono quelle immagini a rendere indelebile quel ricordo insieme all’abbattimento del tornado italiano pilotato da Gianmarco Bellini con il navigatore Maurizio Cocciolone. Ho visto ieri i servizi televisivi sul conflitto scatenato dalla Russia contro la città di Kiev: quegli elicotteri che svolazzavano minacciosi su una città inerme. Sono ritornato con la mente ad Apocalypse Now, a quei rumori terribili e angoscianti che la guerra produce. E, come nel 1991 a Roma, non sono riuscito a comprendere l’utilizzo delle armi anche perché negli anni, oltre la saggezza, ho continuato ad occuparmi di conflitti umani e ho imparato che la soluzione sta nella mediazione, nel provare a mettere sul tavolo delle opportunità tutti i rancori incrostati negli anni. Appartengo alla generazione di coloro i quali non hanno vissuto le atrocità del conflitto con le armi ma ho capito, da subito, che la guerra non può essere la soluzione a nessuno dei problemi delle parti in battaglia. Questa guerra, questa nuova guerra che ci sfiora e ci ferisce ci trova, forse per la prima volta, inermi. E ci spaventa questo conflitto dove si rischia di finirci dentro e di non riuscire a trovare nessuna soluzione plausibile per appianare l’odio che purtroppo cresce giorno dopo giorno. Non servono le parole dei poeti, le marce della pace, scrivere su Facebook che tutto questo è terribile. Non servono i nostri pensieri, le nostre prese di posizione. Così come nelle discussioni del 1991 a Roma, limitate al tavolo del ristorante, nessuno ci ascolta e ci ascolterà. Dovrebbe parlare l’Europa ma, per quanto ho capito, l’Europa è solo un’entità economica e se qualcuno vuole provare a sentire la sua voce non ha un recapito telefonico valido. Questa guerra, questa ennesima ferità alla civiltà, dovrebbe passare per i canali della mediazione, ma le parti non sembrano voler utilizzare questa strada. Dal mio piccolo osservatorio di persona disillusa vedo che le voci “contro” non sposteranno di un millimetro il conflitto. Le guerre non saranno mai utili e necessarie ma sono quelle utilizzate per dimostrare di essere i più forti. Non i migliori, solo i più forti. Marciare con l’anima in spalle non porterà da nessuna parte nessun essere umano. E di umano in questo modo di veder le cose c’è molto poco.
Nato a Oristano. padre gallurese, madre loguderse, ha vissuto ad Alghero, sposato a Castelsardo e vive a Cagliari. Praticamente un sardo DOC. Scrive romanzi, canta, legge, pittura, pasticcia e ascolta. Per colpa del suo mestiere scommette sugli ultimi (detenuti, soprattutto) e qualche volta ci azzecca. Continua a costruire grandi progetti che non si concretizzano perché quando arriva davanti al mare si ferma. Per osservarlo ed amarlo.
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