Angelo Cui, bancario e sindacalista, è l’autore di questo racconto, in cui fantasia e autobiografia sono brillantemente miscelate. Sardegnablogger lo pubblica in due parti: di seguito leggerete la prima, domani l’appuntamento con il finale.
“Mani in alto” – Sentì l’intimazione rivolta al collega in cassa, mentre era intento a quadrare le bollette dell’ENEL utilizzando una addizionatrice meccanica, e comprese, sollevando lo sguardo lentamente, che il momento che aveva sempre temuto dall’assunzione, era finalmente ed inesorabilmente arrivato. Vide l’uomo, che indossava una maschera nera e puntava contro il cassiere una pistola. Nera anch’essa.
Tre anni prima era stato assunto dalla Banca Popolare di Rocca Cannuccia, dopo aver superato una selezione tra cento settantasette candidati iscritti alle liste di collocamento obbligatorio. Così si chiamavano ancora, alla fine degli anni 70. Dopo la laurea, mentre frequentava uno studio legale per espletare la pratica forense propedeutica all’esame di Stato, aveva presentato domanda per la formale attestazione della propria invalidità (aveva contratto la poliomielite agli arti superiori nel ’54, quando aveva poco più di un anno d’età). Occorre dire – ad onor del vero – che, fosse stato per lui, la domanda non sarebbe mai pervenuta agli uffici competenti dell’INPS. Era, infatti, fermamente convinto di doversela cavare “… con le proprie mani”, come diceva sempre a suo padre quando questi lo sollecitava ad inoltrare l’istanza. Sebbene provvisto della giusta dose di ironia, con la quale era in grado di sbaragliare tutti per arguzia nelle gare di poesia estemporanea che (come tradizione nel proprio paese di origine) ingaggiava con i parenti nei giorni di festa, il padre non apprezzava per nulla i giochi di parole che il nostro gli proponeva quando, nei summit familiari, veniva affrontata la questione della sua patologia. Non apprezzava e reagiva male. Perdeva la propria proverbiale serenità: “ sempere brullanno, ses tue … prus cresses e prus diventas tontu!” gli diceva con voce rabbiosa e occhi pieni di malinconia, passandosi le mani sulla cicatrice a forma di luna piena, ricordo che un puledro vivace gli aveva lasciato sulla fronte quando era bambino. “Tue non mboles cumprenner … non ses che a tutt’is ateros e deo non ti poccio aggiudare po sempere”. Dopo l’ennesima sfuriata del padre, decise di dargli retta superando la ritrosia a richiedere posizioni di vantaggio, che – per molti dei suoi conoscenti – rappresentava “solo stupido orgoglio” e che lui riteneva fosse, invece, l’unico modo per confermare ciò che tutti, con un certo grado di ipocrisia, sostenevano “sei uguale a tutti gli altri”. Fece la domanda, insomma, per non vedere i genitori soffrire e nel tentativo di attenuare la loro preoccupazione per il suo futuro, ben sapendo, però, che ciò non sarebbe bastato né a lenire la sofferenza né ad eliminare la preoccupazione. La commissione medica certificò che il suo grado di invalidità era pari al 40%. Tornando a casa, alla domanda dei suoi, riferì “Si, mi hanno dichiarato poco più che mezzo uomo”, provocando la solita reazione del padre; nei suoi occhi però, questa volta, brillò una luce meno malinconica del solito. “Sempere brullanno ses tue … prus cresses e prus diventas tontu! … como fae domanna”, concluse, alludendo alle liste di collocamento.
Appare evidente, a questo punto, che Giovanni, così si chiamava il nostro bancario, entrò in banca grazie alla stessa caratteristica che – neanche tanto paradossalmente – gli avrebbe creato qualche preoccupazione in casi come quello che qui si racconta. Perché in banca, si sa, sono frequenti le rapine e, Giovanni era, all’epoca, perfettamente consapevole che, in questi casi, i rischi per lui erano maggiori rispetto a quelli corsi dai suoi colleghi mediamente normodotati. Qualche tempo prima, infatti, era accaduto un episodio che lo aveva fatto improvvisamente uscire dalla ignavia nella quale aveva vissuto per circa trent’anni, perché bene o male – seppur con qualche difficoltà – se l’era sempre cavata. Intorno alle cinque del mattino di una calda notte d’estate, rientrava in macchina con cinque amici dopo una cena conviviale in un paesino del nuorese a circa trenta chilometri dal paese natale dei suoi genitori. All’inizio della lunga discesa che porta verso l’incrocio di Ortu Abis, l’amico alla guida vide in lontananza, proprio sull’incrocio, un posto di blocco della Polizia Stradale e decise di effettuare un’improvvisa inversione ad U per evitare la multa per sovraccarico. “Ci hanno visto – gli gridò Giovanni nelle orecchie – fermati! Quelli ci inseguono e ci ammazzano! Fermati!” Per fortuna gli diede ascolto e si rassegnò a parcheggiare sul ciglio della strada in attesa che la gazzella arrivasse a tutta velocità, come puntualmente accadde. Giovanni, seduto vicino al finestrino, abbassato per rinfrescare l’abitacolo, vide quattro uomini in divisa scendere dalla macchina blu con il mitra in mano. Si avvicinarono – ciascuno verso una delle quattro portiere – puntando le armi verso la macchina. “Scendere dalla macchina! Documenti e mani in alto”, urlò quello che doveva essere il più alto in grado. Mentre Giovanni armeggiava con la sicura dello sportello, si sentì sul collo il metallo freddo del mitra, mentre il poliziotto gli chiedeva con voce insicura “e lei, perché non è ancora sceso? Si muova!” “Mi scusi – replicò quasi con un balbettio – ho difficoltà ad aprire!”. “Non faccia lo spiritoso! Apra questo cazzo di sportello, scenda dalla macchina e alzi le mani!” Giovanni respirò profondamente alla disperata ricerca di parole plausibili per spiegare la situazione. Le parole dovevano essere plausibili e chiare per chi – mitra in mano – aveva intimato l’ordine senza essere in grado di comprendere, ma che dico? Comprendere? … nemmeno lontanamente immaginare le difficoltà che Giovanni incontrava ad aprire lo sportello. Anche i suoi amici – bloccati dalla paura – non erano in grado di spiegare la situazione e se ne stavano lì, in mezzo alla strada, con le mani alzate e muti come statue di sale. Con un brivido che, partendo dalla canna metallica dell’arma, passava per il collo e, percorsa tutta la schiena, andava a spirare, con un fastidioso sfrigolio simile a quello che si prova sulla lingua quando la si appoggia sui poli della batteria per verificare se è carica, in prossimità dello sfintere, volgarmente definito b.d.c., Giovanni balbettò: “Non sto scherzando! Ho difficoltà ad aprire lo sportello! Farei, per aprirlo, dei movimenti strani, che potrebbero essere fraintesi … e lei, col mitra in mano, è meglio per tutti che non fraintenda … “. “Lei – replicò il militare – continua a fare lo spiritoso, la smetta, esca immediatamente dalla macchina e alzi le mani!” “Facciamo così – sussurrò esausto Giovanni – il finestrino è abbassato, può chiamare un suo collega che mi tenga fermo per evitare ogni rischio, mentre lei apre lo sportello ed io scendo … non vedo l’ora di farlo … oppure, se non mi crede … spari … e vaffanculo!” L’insulto fu più efficace del resto del discorso. Scosso da un impeto d’ira, il poliziotto, con un solo movimento, mise la sicura all’arma e, mentre immobilizzava Giovanni tenendolo con una mano sul collo, con l’altra, passando attraverso il finestrino aperto, spalancò lo sportello. “E ora scendi, figlio di puttana!” urlò. Anche la notte percepì che la sua paura, se non superiore, era almeno pari a quella di Giovanni. Quest’ultimo scese dalla macchina con le gambe più molli degli spaghetti scotti. “Alza le mani, t’ho detto!”. “Alza le mani un cazzo!. T’ho detto che ho difficoltà, perquisiscimi e facciamola finita, porca Eva!” Finalmente si decise. Quando le mani del poliziotto compresero che – sotto le maniche della giacca – invece che due braccia robuste e potenzialmente pericolose – erano appesi alle spalle due mezzi bastoni di scopa, l’espressione del milite andò lentamente e progressivamente cambiando sotto il chiaro di luna. Da prima Giovanni percepì chiaramente che il suo volto si rasserenava, poi assumeva una espressione interrogativa, alla quale seguì subitanea quella di colui che dice tra sé e sé autoaccusandosi “che figura di merda … !”. Giovanni, con la generosità di chi è consapevole di averla scampata bella, gli si rivolse con un largo sorriso dicendo “Non ti preoccupare. Non hai ragione di rammaricarti! Non potevi saperlo!”. “Mi scusi” replicò senza trovare il coraggio di sollevare lo sguardo per guardarlo negli occhi. E’ sufficiente aggiungere che – controllati “patente e libretto” del conducente – il gruppo venne invitato a raggiungere la propria destinazione senza ulteriori indugi, e ripartirono senza pagare pegno. A Giovanni rimase l’amaro in bocca che solitamente sentiva quando lo sfiorava il dubbio di aver fruito di una situazione di ingiustificato vantaggio quando gli altri agivano spinti da un malinteso senso di pietà per la sua condizione particolare. Dopo qualche chilometro, quasi a svuotarsi di quella sensazione spiacevole, chiese all’amico di fermarsi: “Ho voglia di pisciare” – disse.
Ancora, quando ripensa a quella notte, sente nitidamente il freddo della canna del mitra e la frustrazione di non aver potuto obbedire all’ordine di alzare le mani, insieme alla paura del rischio che – per questo – aveva personalmente corso e che aveva fatto correre ai suoi amici. La mattina dopo, risvegliandosi, realizzò per la prima volta che – con il lavoro che faceva – gli sarebbe potuto accadere che qualcun altro lo invitasse perentoriamente, armi in pugno, ad alzare le mani e si disse “devo fare qualcosa … devo trovare un modo”.
Crescendo aveva sviluppato una particolare abilità nell’arte di arrangiarsi, una accentuata attitudine a trovare modi di fare le cose alternativi a quelli comunemente usati dalla maggioranza delle persone. Era aiutato in questo processo di adattamento “darwiniano” dall’esperienza di sette anni di collegio nel corso dei quali, partendo da una situazione di inettitudine totale, aveva inventato – tra mille insuccessi – modi alternativi per vestirsi e spogliarsi, per procacciarsi il cibo in dispensa e in cucina, per mangiare, per lavarsi ed asciugarsi. Era grato per questo in particolare a suor Angelica che, con l’impareggiabile efficacia degli artigiani ispirati dalla volontà di essere utili ai propri simili, utilizzando quasi sempre materiali di risulta, aveva ideato e realizzato con le proprie mani protesi, apparecchi, stecche e altre mille diavolerie, grazie alle quali molti dei suoi compagni di collegio avevano imparato a camminare e ad essere, almeno parzialmente, autosufficienti. Utilizzando quattro stecche di metallo di una vecchia carrozzina e la stoffa di un paio di jeans donati al collegio ormai bisunti dalla locale Confraternita delle Opere di Bene, la religiosa aveva realizzato per Giovanni due guanti senza dita che gli consentirono di migliorare la funzionalità delle mani, tenute finalmente dritte dall’apparecchio. Saccheggiando un vecchio banco di chiesa aveva, invece, costruito un piano scrittura alto quanto era necessario per permettere a Giovanni di scrivere seduto come tutti gli altri e non accovacciato per terra, come aveva fatto sino ad allora. Giovanni era stato in qualche modo forgiato da un monito ripetuto fino alla nausea da suor Angelica a tutti i ragazzi ospiti del collegio: “non arrendetevi mai, ve la potete cavare … ve la caverete se riuscirete ad utilizzare a pieno e con fantasia ogni vostra energia, ogni vostra attitudine, ogni vostro muscolo … quelli buoni e quelli che lo sono … un po’ meno” Parliamo di queste storie, non perché funzionali a quella che qui raccontiamo, ma per il semplice ed intimo piacere di parlare di quella santa donna, che costituisce ancora oggi uno dei ricordi piacevoli di un lungo periodo della sua pubertà, che, per altri versi, ha mostrato a Giovanni quanto può essere malvagio l’uomo (e la donna) quando ha a che fare con i più deboli ed i più indifesi. Altri versi che qui, invece, non si vogliono raccontare.
Abbiamo lasciato il nostro bancario alle prese con un problemino da risolvere. Fece appello all’arte di arrangiarsi di cui abbiamo parlato e alla creatività a quell’arte connaturata. Rientrando dalle ferie, infatti, Giovanni, per affrontare quello che ormai si era trasformato in un assillo quotidiano, ebbe l’idea di utilizzare il sistema frenante di comandi a bacchetta della vecchia baloncina ereditata dal nonno, che suo fratello aveva dismesso per sostituirla con una Bianchi da corsa, costata un occhio della testa e destinata, più della prima, a rimanere inutilizzata. Scese in cantina e comincio a rovistare pensando “smonto le bacchette dei freni e costruisco un sistema in grado trasmettere in qualche modo il movimento per sollevarle alla bisogna”. Trovò il vecchio attrezzo ormai arrugginito sotto una caterva di porte e finestre, sistemate in cantina dal padre, indotto dalla parsimonia di chi ha conosciuto gli stenti della guerra e sviluppato l’abitudine a “conservare per il domani” anche quando ha raggiunto sufficiente agiatezza. Riuscì a smontare le bacchette e verificò che, con una pulitina ed un antiruggine, sarebbero state ancora utilizzabili.
Infilò le bacchette in una busta di plastica e si recò da Tore, un suo vecchio compagno di scuola che, finite le medie, al proseguimento degli studi aveva preferito il mestiere di meccanico. (Continua domani…)
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