La prima parte di questo racconto di Angelo Cui è stata pubblicata ieri. Ecco a voi il finale. Buona lettura.
…Infilò le bacchette in una busta di plastica e si recò da Tore, un suo vecchio compagno di scuola che, finite le medie, al proseguimento degli studi aveva preferito il mestiere di meccanico. Nella fase di progettazione affrontarono una serie infinita di problemi, tra i quali quello più complicato da risolvere, era rappresentato dalla individuazione della fonte di energia necessaria a provocare il movimento e dalle modalità con le quali trasmettere l’impulso necessario alla attivazione di tale fonte. In un primo momento ipotizzarono di sfruttare le caratteristiche di un organo umano capace, tra l’altro, se sottoposto a stimoli idonei di cambiare forma, dimensioni e posizione. Pensarono di trasmettere alle braccia – mediante le bacchette del sistema frenante – l’energia prodotta da tale movimento. Occorre sottolineare – per evitare che si pensi che Giovanni avesse una percezione eccessiva della propria virilità – che l’energia, che i due amici stimavano necessaria a produrre il movimento delle braccia, si misurava in quantità infinitesimali, grazie al sistema di pesi e contrappesi che i due ritenevano di poter adottare. Escluso, per motivi piuttosto evidenti l’utilizzo dello stimolo tattile, dovettero abbandonare anche l’idea di avvalersi dello stimolo visivo ed acustico. Dallo studio statistico relativo alle rapine, fu, infatti, semplice verificare che la percentuale di quelle effettuate negli ultimi dieci anni da ragazze avvenenti, vestite in abiti succinti, che intimavano di alzare le mani con voce profonda e suadente si attestava intorno allo 0,5%. Esclusero anche, per questioni di decenza e di pudore, ma soprattutto per le insormontabili difficoltà pratiche, di poter utilizzare come carburante/corroborante il ponderoso archivio pornografico custodito nel caveau, insieme alle mazzette da centomila, da Timoteo, il cassiere capo della filiale. Tra le debolezze di un sistema siffatto, considerarono, infine, che, con l’andar del tempo, le capacità reattive indispensabili a produrre il movimento erano destinate inesorabilmente ad esaurirsi rendendo, in ogni caso, del tutto inefficiente la macchina nell’arco di pochi anni. Tore ipotizzò allora “E se collegassimo il motore ad un comando vocale trasmesso mediante impulsi radio?” “Troppo aleatorio e rischioso, oltre che tecnicamente complicato da mettere a punto!” reagì prontamente Giovanni. “Servirebbe una trasmittente, un motorino elettrico e batterie di lunga durata da tenere sempre sotto monitoraggio per accertarsi che siano costantemente cariche … no, non è possibile” continuò il bancario. “E … poi …” “E poi?” chiese Tore incuriosito. “No … è che si rischia di fare la fine della macchina per scrivere …” “La macchina per scrivere? Non ti capisco, ti vuoi spiegare?” reagì Tore, che cominciava ad essere stufo delle mezze frasi dell’amico. “Devi sapere che qualche mese fa – rispose Giovanni per spiegarsi – mi sono lamentato con il Dr. Dossu … tu l’hai conosciuto quando hai chiesto il finanziamento per l’acquisto del tornio … ti ricordi, si? Ti ricordi anche che ti è stato negato? Ecco, è stato lui che ha deciso! Mi sono lamentato – dicevo – della mia Olivetti32, i cui tasti possono essere schiacciati solo a martellate …” “E allora?” incalzò Tore. “E allora … quello mi ha risposto che – per venire incontro alle mie difficoltà – la Banca pensava di importare dagli Stati Uniti una macchina scrivente a comandi vocali … considerando che simili macchinari sono ancora in fase di sperimentazione e tenuto conto di quanto sono attenti ai costi, ho avuto l’impressione netta che mi stesse menando per il naso e gli ho detto che non faceva per me! E alla sua domanda “Perché?” ho risposto: faccia il caso che io stia scrivendo una lettera … che ne so? All’avvocato Massonero … faccia il caso che io stia dettando alla sua bella macchina ultra moderna “Egregio Avvocato Massonero … faccia il caso che proprio in quel momento lei entri nel mio ufficio ed io … pensando a lei … dica a voce alta “ … che cazzo vuole adesso?” … lei capisce bene che la macchina recepirebbe “ … Egregio Avvocato Massonero che cazzo vuole adesso?” capisce bene, Dr. Dossu, che non è cosa … mi ha cacciato via urlando … e io continuo a tenermi la Olivetti32!” “Adesso mi spieghi che c’entra con quello che stiamo facendo qui?” replicò furioso il meccanico. “E’ semplice … qualunque formula noi possiamo adottare per impartire il comando, corriamo il rischio che sia pronunciata inavvertitamente con il risultato che rischierei di … alzare le mani a pera o ad ogni piè sospinto” Questa considerazione convinse l’amico ed abbandonarono anche quell’idea. Dopo mille altre ipotesi e tentativi, decisero di produrre il movimento meccanicamente collegando le bacchette del sistema frenante alla manopola del freno, che ipotizzarono di sistemare sotto il tallone della scarpa destra. Le prime prove confermarono che il sistema era un po’ ingombrante ma funzionale. E’ pur vero che il meccanismo non consentiva a Giovanni di obbedire a comandi del tipo “ allargare le gambe … e … mani contro il muro “ oppure “ … allargare le braccia a mo’ di Cristo in croce!” o, ancora “mani dietro la nuca!”. Ma i due inventori decisero, comunque, di procedere in considerazione del fatto che – statistiche alla mano – la creatura consentiva di ridurre il rischio del 70/80%. “In ogni caso – si dissero – possiamo continuare a sperimentare, studiare, trovare altre soluzioni per renderlo più sofisticato e più efficiente” Realizzato il prototipo, cominciò il periodo di sperimentazione pratica. Tutte le sere, Giovanni rientrava dal lavoro ed indossava “Celeste Manin” – così i due avevano battezzato quella specie di imbrago meccanico – si metteva davanti allo specchio e urlava “MANI IN ALTO!”. L’ordine veniva immediatamente recepito dal tallone che – schiacciando la manopola del freno – faceva alzare le mani con un livello di efficienza intorno al 97%. In quel periodo i genitori di Giovanni pensarono di averlo definitivamente perso. Vedendolo passare ore ed ore davanti allo specchio e sentendolo urlare in maniera tanto seria quel comando che – dal loro punto di vista – non aveva alcuna ragion d’essere, cominciarono a dirsi “S’est ammacchiaiu, mischinu … est trabajanno troppu … taccat a ddu faer bisitare dae professor Tripudio” (uno specialista delle malattie mentali che, in quel periodo, andava per la maggiore). Quando lo vide alzare le mani per la prima volta nella sua vita, la madre di Giovanni si illuse (ma solo per la frazione di un secondo) che la polio potesse regredire e che quella del proprio figlio lo stesse facendo. Quando – subito dopo – realizzò che il movimento era prodotto grazie a Celeste, la disillusione fu tanto repentina quanto traumatica “… no no … s’est propriu ammacchiau …est faenno ammacchiare a mimi puru!” sussurrò tra le lacrime ed implorò il marito di telefonare al professorone per fissare un appuntamento. “… Ci non ne leaus a issu … mi toccat a mi faer bisitare a mimi … ca n ci no custu piccinneddu no sin interrat luego e accabbat ca ddu lassaus solu … solu e maccu”. Non fu semplice per Giovanni rasserenare i genitori spiegando loro i motivi del suo comportamento e l’utilità di quell’imbrago. Fu costretto un giorno a sfidare il padre “Piga su fosile … piga su fosile e puntamiddu … Puntammiddu e nara “MANI IN ALTO!” …” “Tue ses propriu maccu” – reagì il padre. Ciononostante, si arrese, e, se non altro, per liberarsi delle insistenze del figlio, prese il fucile, glielo puntò contro incerto e sussurrò “mani in alto, fiju mee … “. Giovanni schiacciò la manopola con il tallone ed alzò le mani chiedendo “cumprenniu asa, como?” e proseguì “ca n ci no comente faccio a si ddu faer cumprenner a un ibbanniu ca non ddos poccio altzare?” e concluse “cumprenniu asa?” “e giai apo cumprenniu, fiju meu … ma tue ses macc e tottu!” Giovanni comprese che l’espediente aveva funzionato solo il giorno dopo quando, di primo mattino, il padre si offrì di aiutarlo ad indossare Celeste “E oe … non ti ddu estis cuss’ispecie ‘e pantuma?”. Terminata la sperimentazione interna, colse l’occasione della sfilata di carnevale per collaudare la sua creatura all’esterno. Indossò un lenzuolo a mo’ di mantello e un cappuccio da baballotti e si intrufolò tra le altre maschere. Quando intravedeva – tra la folla che assisteva alla sfilata – persone conosciute, gli si faceva incontro e, all’urlo di MANI IN ALTO!, sollevava le mani con un piacere indescrivibile. Ad un certo punto – mentre era impegnato in quel gioco che lo faceva ridere fino alle lacrime – una folata di vento gli fece volare via il cappuccio. Smise di ridere perché comprese che lo spavento, prodotto da quello stupido scherzo, era maggiore quando – vedendolo in faccia – le vittime capivano che era lui ad alzare le mani.
Quando ritroviamo Giovanni alle prese con la sua prima vera rapina, sono passati quasi due anni dal giorno in cui aveva incominciato ad indossare quotidianamente Celeste per recarsi in ufficio, senza rivelare mai il proprio segreto né ai colleghi né – tantomeno – ai superiori. Sentendo l’urlo “Mani in alto”, sollevò lo sguardo cominciò a muoversi istintivamente dal suo posto e, senza lasciare la grossa cucitrice metallica con la quale pinzava le contabili dare/avere, mosse qualche passo verso il collega sotto minaccia. “Tu, fermo lì e mani in alto!” esclamò minaccioso il rapinatore non appena lo vide muoversi e – rivolto al cassiere – “e tu, mani in alto, apri subito questo cassetto e metti sul banco tutti i soldi che hai … e muoviti!” L’impiegato pensò “anche questo ha imparato alla scuola dei nostri funzionari” e rivolto al bandito disse sommessamente “mi scusi, delle due una: o alzo le mani o le do i soldi, lei cosa preferisce?” A Giovanni scappò un sorriso, che mandò il malvivente su tutte le furie “ .. che cazzo ridi, alza le mani o ti pianto una pallottola in mezzo ai denti, così vediamo se ti passa la voglia di ridere … e tu – voltando lo sguardo verso la cassa – non fare tanto lo spiritoso … prendi i soldi … mettili sul bancone e poi, solo poi, alza le mani … – e concluse tra sé e sé – me l’avevano detto che i bancari proprio svegli … svegli… non sono … ma questi … porca troia …” “Ora finalmente vediamo se funziona davvero …” pensò tra sé Giovanni e con tutte le forze che aveva schiacciò la manopola con il tallone. Funzionò! Altroché se funzionò! Le mani si sollevarono con una velocità tale che, dalla sinistra partì la cucitrice e, dalla destra, come una saetta schizzò via una delle bacchette che supportavano il braccio. E Giovanni rimase lì impietrito, con il braccio sinistro ritto verso l’alto per tutta la sua estensione ed il destro, privo del supporto della bacchette volata via, steso all’in su sino al gomito e con l’avambraccio che ricadeva verso il basso come il ramo di un salice piangente. La bacchetta – passando attraverso la maschera – si infilzò nell’occhio destro del rapinatore e, nello stesso tempo, la cucitrice colpì con violenza la sua mano, tanto da costringerlo a lasciare la presa e far cadere la pistola per terra. Battendo sul pavimento, l’arma lasciò partire un colpo che, dopo aver mandato in frantumi un terminale, esaurì la propria corsa contro una delle vetrate della filiale, riducendola in briciole, nonostante la vetrofania la certificasse antisfondamento-antiproiettile. Mentre Timoteo, approfittando della confusione, chiudeva i mezzi forti del caveau per mettere al riparo il suo tesoro, il direttore della filiale, il cui ufficio era ubicato al piano superiore, richiamato dal fragore, si precipitò verso il piano terra. Inciampò nel primo gradino della scala a chiocciola e ruzzolò giù finendo steso a pelle di leopardo sul corpo del rapinatore che, nel frattempo, era svenuto per il dolore. Persero i sensi anche Michele, Maria e Filippo, i tre colleghi che lavoravano con Giovanni allo sportello. Intervistati alcuni giorni dopo dalla stampa locale, riferirono di non essersi accorti della rapina e dichiararono di essere svenuti per lo spavento quando avevano visto Giovanni con le mani alzate. “E il colpo di pistola?” – chiese loro il giornalista, “quando è partito lo sparo – risposero all’unisono – eravamo già svenuti! Il colpo ci ha risvegliati” affermarono convinti e, per il giornalista, anche convincenti. Giovanni, dopo qualche istante di comprensibile sbandamento, riacquistò la lucidità necessaria e corse al telefono. Chiamò il la polizia per segnalare la rapina in corso ed il Pronto Soccorso informando il centralinista della presenza di diverse persone ferite. Dopo qualche minuto, davanti all’ingresso della filiale, erano presenti tanti poliziotti e tante ambulanze da far pensare ad una strage. Il giorno dopo la CONFUSIONE TARDA – il più diffuso quotidiano locale – riuscì a vendere migliaia di copie uscendo con un titolo a caratteri cubitali “BANCARIO IMPAZZITO FA UNA STRAGE ALLO SPORTELLO Muoiono il direttore della filiale ed un giovane cliente – Tre impiegati finiscono all’ospedale in fin di vita” Nel corpo dell’articolo in prima pagina si poteva leggere, tra l’altro “stamane un giovane dipendente della locale filiale della Banca Popolare di Rocca Cannuccia, certo G. C. originario della Barbagia, affetto da tempo da disturbi psicologici tanto che – secondo quanto riferito da autorevoli fonti dell’Istituto di Previdenza – alcuni anni fa è stato dichiarato parzialmente incapace, ha perso il controllo e, per futili motivi, ha aggredito violentemente tutti i presenti all’interno dello storico istituto di credito. Armato di due ordigni rudimentali realizzati artigianalmente con la complicità di un suo amico meccanico, ha dapprima dato fuoco a macchinari e suppellettili della filiale utilizzando un lanciafiamme, costruito con i fornelli di una cucina a gas ed una bomboletta da campeggio, e poi ha iniziato a lanciare frecce contro i presenti mediante una balestra ricavata con i pezzi della vecchia carrozzina con la quale la madre lo portava in giro quando era in fasce. Pare che la follia omicida sia stata scatenata dal rifiuto di un collega di prestargli un giornale finanziario custodito nel caveau. L’omicida non sarebbe nuovo ad episodi di violenza cieca; fonti interne ben informate riferiscono, infatti, che due anni fa il pluriassassino ha distrutto un cimelio storico di ingente valore (una Olivetti32, esposta negli uffici di direzione) scaraventandolo per la tromba delle scale. Le forze dell’ordine, dopo aver tratto in arresto il folle, hanno iniziato le ricerche in tutto il territorio nazionale del meccanico, con il quale avrebbe progettato da tempo l’insano gesto. Parrebbe che l’artigiano si sia voluto vendicare per il diniego di un finanziamento da parte dello stimato funzionario rimasto vittima dei fatti insieme ad un giovane cliente. Nelle pagine interne le interviste con gli altri clienti e con l’anziana madre del fermato, incredula e distrutta dal dolore.
Come è evidente, nell’articolo i fatti furono, come spesso accade per l’ansia di andare in prima pagina e per il pressapochismo che talvolta caratterizza le redazioni, totalmente travisati, come dimostrato dalla stessa intervista dei colleghi di Giovanni – pubblicata a pagina 3 – nella quale lo stesso giornale fa riferimento espresso ad una rapina finita male . Il bilancio della quale può essere riassunto in poche righe. Il rapinatore riuscì a salvare la perfetta efficienza visiva dell’occhio ferito per effetto del pronto intervento dei sanitari, resosi possibile grazie alla immediata telefonata dell’imputato al Pronto Soccorso, come si legge nella sentenza del processo che mandò assolto Giovanni. Al responsabile della filiale furono riscontrate in tutto il corpo numerose ferite lacerocontuse e fratture multiple e scomposte agli arti superiori ed a quelli inferiori, che lo costrinsero a sei mesi di assoluta immobilità e un anno e mezzo di fisioterapia. In sua assenza, sebbene la direzione decise di non sostituirlo, la filiale triplicò i volumi amministrati. I tre colleghi di Giovanni se la cavarono con qualche giorno di ricovero ospedaliero, deciso prudenzialmente dai sanitari per tenerli sotto osservazione dopo un trauma considerato comunque grave, almeno dal punto di vista psicologico. Giovanni venne tratto in arresto dalle forze dell’ordine intervenute nell’immediatezza dei fatti e, dopo due mesi di detenzione preventiva, rinviato a giudizio per porto abusivo di arma impropria, lesioni plurime colpose, eccesso di legittima difesa e danneggiamento aggravato, come si legge sia nell’ordinanza di custodia cautelare sia nel successivo decreto di rinvio a giudizio. “Se solo mi fosse venuta l’idea di costruire Celeste quando ero più giovane, quando ero ragazzo … – pensò Giovanni nel lungo periodo trascorso nel carcere della Cattiva Strada – … tutto questo casino non sarebbe successo”. Fantasticò sul fatto che avrebbe avuto più tempo per perfezionare la sua invenzione, renderla più sicura e governabile, attribuirle movimenti più lenti e naturali, molto più simili a quelli fisiologici. Immaginò che un meccanismo sì fatto gli sarebbe stato utile anche nella vita quotidiana; gli avrebbe evitato, per esempio, di far sobbalzare le persone alle quali si avvicinava per una carezza sul volto o una pacca sulle spalle che – per il suo modo di lanciare la mano verso l’alto – erano indotte a pensare, più che ad un gesto d’affetto, ad un violento ceffone. Tornò con la testa alla sua adolescenza e pensò a quante volte avrebbe potuto evitare – se avesse avuto a disposizione un Celeste, magari un po’ più sofisticato di quello realizzato – di surrogare con le parole una carezza, un puffetto che tante volte aveva avuto voglia di fare ad una compagna di classe o di giochi … ad un’amica. Gli tornò in mente Tinella (era il nomignolo affettuoso che le avevano affibbiato in classe per il suo fisico un po’ abbondante) … arrivò a scuola con i capelli mossi, vaporosi e leggeri … Giovanni fu ammirato da quella testa che la brezza faceva ondeggiare come le spighe in un campo di grano. Tinella comprese il suo stato d’animo e gli chiese “vuoi toccarli? Ho appena fatto la piega …” e gli prese la mano infilandola in mezzo ai suoi boccoli. Giovanni le fu sempre grato, non per il piacere tattile che aveva provato, ma perché era stata capace di capire senza parole. Erano tutti pensieri infantili, dettati forse dalla solitudine e dalla noia che Giovanni provava in quella cella angusta, nella quale due passi rappresentavano tutto lo spazio da percorrere.
Dopo due anni passati a piede libero, si celebrò il processo che si concluse con una assoluzione piena di Giovanni per tutti i capi di imputazione; “perché il fatto non costituisce reato” fu la formula usata. Il rapinatore – riconosciuto colpevole di tentata rapina – fu condannato a due mesi con la condizionale ed al risarcimento dei danni.
Giovanni uscì dal Tribunale leggero e felice. Si addormentò appoggiato al finestrino mentre rientrava. A metà viaggio si svegliò e si diresse verso i servizi. Fu tentato di azionare il freno di emergenza avvalendosi di Celeste, stranamente convinto che – insieme al convoglio – avrebbe potuto fermare il mondo e godersi il momento. Vi rinunciò preoccupato del fatto che la fermata si sarebbe potuta rivelare troppo brusca. All’arrivo scese dal vagone e, per accendersi la solita sigaretta, si accovacciò sul marciapiede come aveva imparato a fare in collegio quando gli veniva prurito al naso. “Ha bisogno d’aiuto, signore?”, gli chiese premuroso un ragazzo che era sceso dietro di lui. “No, no, grazie … mi sto solo accendendo una sigaretta … io faccio così” “Mi scusi … adesso ho capito … ma vedo che se la cava alla grande, anche se non riesce a tenere le mani in alto” “E chi te l’ha detto?” – chiese Giovanni con un sorriso. E azionò Celeste.
In questa categoria sono riuniti una serie di autori che, pur non facendo parte della redazione di Sardegna blogger collaborano, inviandoci i loro pezzi, che trovate sia sotto questa voce che sotto le altre categorie. I contributi sono molti e tutti selezionati dalla redazione e gli autori sono tutti molto, ma molto bravi.
Renatino e i misteri di Roma (di Giampaolo Cassitta)
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