Dice: “Romanzo di formazione”. E che fastidio quando sul bancone discount dei risvolti di copertina ti presentano i generi in confezione scontata. Anche perché è sufficiente che tu ammazzi un tale e poi fai scoprire l’assassino, ed è un giallo; se chiacchieri anche solo per un momento dal punto di vista dell’assassino, è un noir; se dici che il quartiere del delitto è in una cadente periferia, puoi anche descriverla di cazzo, quella periferia, ma è un romanzo sociale; se il delitto lo commette un maschio contro una femmina, è un romanzo di denuncia. E se specifichi magari di sfuggita che l’assassino da bambino studiava dai preti e poi è entrato in fabbrica, sarà appunto un romanzo di formazione. Poi ho letto “Grande terra sommersa” di Alessandro De Roma (Fandango, 19 euro) e ho capito cos’è un percorso esistenziale raccontato in un’irraggiungibile forma narrativa e in una trascinante concatenazione di eventi. Cos’è un vero grande romanzo di formazione, insomma.Cominci e sei in una fiaba. Tragica, plumbea, disperante, con brevi gioie pagate con lunghi dolori, ma sottilmente onirica, ai confini del vero in un Paese onestamente descritto con nomi e cognomi realistici e talvolta reali ma pur sempre di un altro mondo, pensi sempre di doverti risvegliare da quel meraviglioso pezzo di Sardegna che però può essere anche in Oklahoma o dalle parti di Reykjavik; dove De Roma ti fa sentire il profumo delle cose concrete e delle persone effettive, ma tu ti aspetti da un momento all’altro di vedere spuntare l’umano-bestia della copertina, un essere da favola, appunto.Vai avanti e cresci insieme a questo ragazzo. Non è che lo vedi crescere, sei dentro la sua testa e il suo cuore, l’autore ti agguanta e ti tuffa nel tumultuoso eppure consolante suo creato e pian piano, incarnato, tu lettore, nel protagonista narrante, usando i suoi occhi e cuore, vedi quel mondo sognato trasformarsi, pezzo per pezzo, in un mondo sin troppo concreto.E il bello è che l’autore non te lo sputa in faccia, finge di starne lontano in una specie di straniamento verghiano, è una voce misteriosa che viene da lontano: i nomi sono gli stessi, i luoghi hanno la stessa forma dell’inizio, ma ora sono veri prima erano una favola con poche fate e molte streghe.Immaginatevi a esempio, per dirne uno che tutti conoscono, il paesino di Pinocchio, quello di case e persone, addirittura veristiche nella descrizione di Collodi, ma anche abitato da un ciocco che parla e cammina, da un grillo che dà consigli saggi e pallosi, il paesino del ritorno dell’eroe, dopo l’avventura, ripersonificato in carne e ossa. Ecco, è come se a poco a poco quel luogo magico, pur restando lo stesso, dismettesse la magia per diventare un paesino toscano con tanto di sindaco, magari leghista, comando locale di carabinieri normali e non caricaturali, e dove un falegname non è un creatore ma soprattutto una partita iva.Mi ha ricordato, questo libro – pregnante odissea esistenziale che non coinvolge solo un’esistenza ma un mondo e i suoi spettatori – un’impagabile notte di chiacchiere in auto con Giulio Angioni. Cominciò quando gli dissi che l’antropologia per un ignorante come me era tutt’al più Italo Calvino, con i suoi Giufà riscritti o il suo principe-porco che da elemento di tradizione popolare diventano favola. E Angioni, grande antropologo ma altrettanto fine narratore, rise e giocò quella notte il gioco inverso, riportando Giufà, il ragazzo scemo e furbo di Calvino, da elemento immateriale ai riferimenti molto materiali ai quali si erano rifatti i popoli delle varie regioni italiane per promuovere il povero Giufà a personaggio leggendario.E’ questo, secondo me, il “romanzo di formazione” di De Roma, un passaggio da una malinconica favola a una malinconica realtà, dove la malinconia non è tristezza disperata, ma proprio malinconia, cioè, in fondo, un sentimento durissimo e dolce che rende dolce e sognante la solitudine come durissima scelta.Inutile fare una compiuta sinossi di questo romanzo. Non perché non abbia una trama definita, un principio e una fine molto chiari; anzi, c’è un principio solenne quanto quello biblico della creazione, la morte della madre, fatto primigenio dell’esistenza tutta dell’eroe; e c’è una fine che riporta con evidenza all’inizio, persino nel ritorno all’immaterialità, con quel mistico tuffo in un mare che diventa misterioso. Ma non vale la pena di riassumere, piuttosto, perché è scritto, mi pare, per essere vissuto, molto più che letto. Questa, almeno, è la sensazione mentre lo leggi. Un presentimento certamente non indotto da magie o da chissà quale potenza sentimentale dell’autore. Io credo invece che questo rapimento del lettore nel gorgo di una vita narrata sia soprattutto una scelta meditata e scientifica, condotta da un grande scrittore con magistrale efficacia stilistica e con l’uso di produttivi e spesso inconsueti espedienti descrittivi.Non serve quindi svelare cosa diventi nella realtà quella casa di marzapane della famiglia Campus, palesemente abitata da streghe-sirene che ti attirano nel fascino della cattiveria, o chi sia davvero il padre dell’eroe Pietro, svelare il “dopo” della sua dura nonna, cioè il poco zucchero di Pietro in una vita di fiele.Tutto, in queste pagine, vorrebbe apparire dimesso, c’è il continuo messaggio dell’autore straniato il quale ti dice: “Bada che non ti voglio stupire”. Eppure è sfolgorante. Soprattutto se inciampi in qualcosa che riguarda anche la tua vita, e succederà penso a molti altri suoi lettori, visto che racconta una vita eccezionale ma anche normale. Parlando a esempio nella quarta parte (è diviso in cinque parti per 552 pagine che scorrono a meraviglia) di una casa a Cagliari, in via Santa Gilla, il mio cuore si è tuffato come l’eroe in quella terra sommersa. Ho abitato anch’io in quella via quando studiavo all’università di Cagliari, nella stessa facoltà di Pietro, ed era un condominio modesto probabilmente quanto il suo, forse lo stesso. Sta di fatto che anche io vedevo dalla finestra quell’enorme cementificio che Pietro descrive abbandonato e che io, assai più vecchio di lui, vedevo ancora in già stanca e quasi dismessa produzione. Ma quando mai, anche nei momenti di sconforto, avrei mai potuto pensare alla mia vita come “a quel paesaggio di rovine e devastazione che mi portavo dietro in ogni nuovo domicilio”?Le metafore di De Roma non sono mai ricercati onanismi verbali ma efficaci, talvolta violenti, inviti a guardarti intorno, a scoprire nel fatto materiale quello immateriale della tua essenza. Le descrizioni degli eventi possono essere dolci e inquietanti oppure prenderti nel fascino della brutalità: “Beve ancora, mi fa bere, poi poggia la bottiglia sul comodino. Si leva di dosso la camicia, la gonna, le mutande. Davanti a me c’è un grosso animale femmina”.C’è una volta in cui il narrato è talmente disperante da farti pensare che il narratore lo abbia voluto ingentilire dandogli addirittura la scansione grafica di una poesia:“Dodici anni e non ero più vergine.Non ero più un bambino.Non ero, forse, nemmeno più umano”.Se metti le tre righe di seguito scorrono lo stesso, se le scandisci in tre pseudoversi hanno l’icasticità di una maledizione: ecco il grande scrittore.E’ il settimo romanzo di Alessandro De Roma. Tra questi penso che il precedente “Nessuno resta solo” (uscito da Einaudi nel 2021) sia il magnifico proemio stilistico e concettuale a questo compiuto capolavoro. Leggetevi anche quello, ma questo non ve lo perdete.
Nato nel 1951, ottobre (bilancia, ma come tutti quelli della bilancia non crede nell'oroscopo). Giornalista dal 1973. Scrive anche altra roba. Ma gratis, quindi non vale.
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