Una volta, nei film americani, noi italiani eravamo mafiosi, corrotti e truffatori. Ora non più, ora passiamo per puttanieri. Di certi filmacci prodotti negli Stati Uniti in cui l’Occidente rischia di essere dissolto da una terribile minaccia terroristica ne ho visti a decine. Li guardo con la stessa fierezza con cui consumo hamburger e patatine al McDonald’s, quando capita. Sono sempre uguali. C’è sempre una guardia del corpo che vuole andare in pensione, magari ha pure moglie e figli piccoli e ne ha le tasche piene del lavoro rischioso. Ma poi le circostanze e il suo patriottismo lo costringono a restare in servizio per proteggere il presidente degli Stati Uniti. Finisce sempre che lui e il presidente restano da soli, con un nugolo di terroristi assatanati alle calcagna, e c’è sempre un momento in cui lui fa da scudo col corpo al presidente sotto tiro. In genere anche il presidente, al culmine della tensione, impugna un’arma, spara e uccide. Fischiano le pallottole, ma poi il presidente la fa franca e il film finisce con la bandiera a stelle e strisce che si alza sul pennone e inni trionfali, mentre moglie e figli della guardia del corpo assistono dalla televisione alle imprese del loro eroe, trasmesse in mondovisione. In “Attacco al potere 2” – quasi un kolossal dai mille effetti speciali, con Morgan Freeman nel cast – i capi di Stato dei Paesi più potenti del pianeta devono partecipare al funerale del primo ministro britannico, morto in circostanze misteriose. Londra per l’occasione è blindata. C’è una sequenza del film dove gli statisti vengono passati in rassegna, uno per uno, nell’ultimo tratto del loro viaggio verso la cattedrale di Saint Paul. Il presidente americano arriva all’aeroporto di Stansted sull’Air Force one e poi prosegue in elicottero verso Saint Paul, la cancelliera tedesca cammina in mezzo alla folla stringendo mani davanti a Buckingham Palace, il premier francese prepara la sua orazione funebre dentro una chiatta, sul Tamigi, il capo del governo giapponese sfreccia su una berlina scura verso il luogo delle esequie. Hanno tutti espressioni tese e toni solenni, si avverte dai loro gesti la gravità del momento. Così, ad un certo punto, non si può proprio fare a meno di chiedersi se gli sceneggiatori abbiano degnato l’Italia del ruolo di grande potenza. La risposta arriva alla fine della succitata sequenza. Il Presidente del Consiglio dei ministri italiano ha il nome immaginario e gaudente di Antonio Gusto, l’occhio torbido da porco e, lontano da scorte e occhi indiscreti, è avvinghiato ad una mora dall’occhio languido, molto più giovane di lui. Tanto più giovane che il nostro primo ministro ha approfittato del provvidenziale funerale per festeggiare a Londra il trentesimo compleanno della sua amante. Non ha importanza come il film finisca, l’epilogo è scontato. Quel che più mi ha colpito è la rappresentazione della politica italiana, che è certamente progredita nella considerazione del cinema americano. Una volta eravamo mafiosi, corrotti e truffatori, oggi passiamo solo per puttanieri. La nostra reputazione internazionale ne ha guadagnato: a certi politici italiani degli ultimi vent’anni questo merito dobbiamo riconoscerglielo.
Nato nel 1971 ad Arzachena ed ivi smisuratamente ingrassato negli anni seguenti, figlio di camionista e casalinga. Titoli appesi alle pareti: laurea in Lettere moderne all'Università di Sassari, iscrizione all'albo dei giornalisti professionisti, guida nazionale di mountain bike, presidente della Asd Smeraldabike, direttore della testata Sardegnablogger. È stato redattore di tre diversi quotidiani sardi: dal primo è stato licenziato, gli altri due sono falliti. Nel novembre del 2014 è uscito il suo primo romanzo, "Cosa conta".
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