La fame è una costante della farsa. La fame cieca, onnivora, cattiva, quella di Saturno che mangia i suoi figli, la fame sublimato di miseria. Sarà brutto dirlo, ma, se saputa trattare, è dai tempi di Plauto, e anche prima, quanto di più umoristico si possa proporre su un palcoscenico. E’ la fame dal punto di vista dell’affamato, naturalmente, a fare ridere. Il riccone che racconta la fame del povero fa soltanto schifo, come un naziskin che racconti barzellette sugli ebrei. Ma quando a scherzare su di sé sono gli stessi ebrei, allora stiate certi che c’è da tenersi la pancia per le risate. E’ così per la fame cucinata in salsa molto popolare dal grande teatro napoletano. Ed è così anche per la rilettura sassarese di questo immenso tema operata dalla Compagnia Teatro Sassari con la guida di Mario Lubino. Il titolo riassuntivo proposto al pubblico numeroso e festante del Parodi di Porto Torres era “Cant’è mara la fammi” e comprendeva due atti unici tratti dalle opere di Peppino De Filippo “Miseria bella” e “Tre poveri in campagna”. Quest’ultimo Peppino lo aveva a sua volta tratto dalla farsa di Antonio Petito “La scampagnata dei tre disperati”. E c’è da dire che in questa rilettura Mario Lubino ha recuperato molto della versione più antica, forse perché il leggendario Petito, grande ideatore di soggetti e creatore di personaggi da scena, ma meno puntiglioso nella scrittura, è un invito trascinante a una sorta di commedia dell’arte, alla reinterpretazione delle sue trame. Tanto che Lubino, nel suo irresistibile zibaldone sassarese-napoletano, ha ceduto alla tentazione di inserire anche il celeberrimo assalto agli spaghetti di “Miseria e nobiltà” di Eduardo Scarpetta, collaudatissima scena che ha, come ogni volta nella sua secolare storia teatrale e cinematografica, strappato risate e applausi. Detto questo, va specificato che riproporre oliate macchine teatrali come quelle di Antonio Petito, Eduardo Scarpetta o Peppino De Filippo (li cito in ordine cronologico, non di importanza, perché altrimenti, secondo il mio modestissimo e incolto avviso, dovrei partire dall’ultimo) non è che renda il lavoro più facile. Anzi, l’operazione diventa molto più ardua. Per capirci, è come se doveste raccontare con il vostro tono, le vostre variazioni, magari in un set o in una lingua diversi, la barzelletta più nota del mondo. E doveste riuscire a fare ridere pur nella terribile consapevolezza che il vostro pubblico sappia come andrà a finire. Il paragone è irrispettoso, perché le malinconiche e comiche farse popolari non sono certo delle barzellette ma uno dei momenti più alti del teatro italiano. Tuttavia serve a capire la complessità della sfida di Teatro Sassari quando si cimenta in una delle sue principali ragioni sociali, quella del teatro di etnia, quella che tende a dimostrare l’universalità della koinè da palcoscenico. In entrambe le farse la regia era di Alfredo Ruscitto, autore (con Vincenzo Ganadu) anche di una scenografia davvero completa e accattivante pur nella sua essenzialità. Ruscitto, bravissimo attore di parlata napoletana che in entrambi i lavori ha anche recitato da coprotagonista, è uno di quei registi tanto presenti e minuziosi nell’allestimento quanto capaci di scomparire nella resa finale. Cioè quelli che costruiscono, destrutturano e ricostruiscono sino a ottenere la perfezione di un scena che poi al pubblico sembra improvvisata dagli attori. Commedia dell’arte, ma apparente. Cito a esempio soltanto la comica cantilena “Zi’ zi’, zi’ zi’, papà mi vo ischudì” dell’incontro tra Mario Lubino e Michelangelo Ghisu (due dei mangiatori a sbafo dei “Tre poveri”, il terzo è lo stesso Ruscitto), apparentemente spontanea e in realtà frutto di una sapiente regia. Ma il clou di questa operazione dedicata alla fame da ridere è probabilmente “Miseria bella”, capolavoro di Peppino De Filippo del 1931 ma uno di quei luoghi teatrali che non hanno più un tempo e un luogo definiti. Andando a rivedere alcune delle edizioni di questa farsa pubblicate in varie epoche, colpiscono le aggiunte di certe scene. A esempio, la discussione sui modi di preparazione della pasta e fagioli e del baccalà tra i due artisti affamati e il portinaio sazio ignaro della loro fame (o forse consapevole ma sadico). Le variazioni e gli approfondimenti compaiono nelle successive edizioni, evidente aggiunta dopo improvvisazioni sul palcoscenico. La farsa di Peppino non concede spazi a monologhi o particolari espedienti scenici. Mario Lubino, nella sua riscrittura- e nella sua straordinaria interpretazione al fianco di Ruscitto – ha ricostruito in sassarese e a Sassari questo linguaggio martellante, dai tempi incalzanti, un dialogare limpido e immediatamente conseguente, apparentemente semplice e in realtà estremamente comunicativo e soprattutto estremamente comico. Le parole sono soprattutto sottolineature dei gesti, sono compagne di viaggio dei movimenti, si uniscono tra esse creando nell’attore quello spirito inscindibile di movimenti e suoni che rapisce il pubblico. Lubino e Ruscitto in entrambe le farse hanno brillato come protagonisti di livello. In “Miseria bella” c’è anche una parte femminile affidata alla bravissima Alessandra Spiga, la giovane e vanesia Giulia alla quale, con la comica, improvvisa epifania del cesso nasosto nel loro atelier di artisti, i due rivelano tutta la loro miserabile condizione. E Alessandra Spiga regge a questo alternarsi di amarezza, di ridicolo e di risate tenendo intatto il suo personaggio sfuggente e superficiale di ragazza ricca e viziata. Michelangelo Ghisu, portinaio in “Miseria” e mancato truffatore nell’altra farsa, conferma le sue qualità di “guitto” nell’accezione più nobile del termine: un profumo di cabaret nella resa di macchiette talvolta di difficile interpretazione, una recitazione sempre ai limiti delle righe ma mai al di sopra, conscio dei tempi che devono portare alla risata finale condita dalla malinconia di fondo di questo tipo di farse. Notevole anche Paolo Colorito, il signor Melasecca di “Miseria bella”, reso in maniera quasi surreale, un marziano che mangia a tutte le ore nel mondo degli affamati, prontissimo a inserirsi negli ingranaggi del meccanismo comico per offrire il destro alle battute gestuali e verbali di Lubino e Ruscitto. Applauditissimo meritatamente anche Pasquale Poddighe, l’oste sanguigno dei “Tre poveri”, pronto a sguinzagliare un cane-leone se qualcuno, tra i tanti disgraziati che nel mondo della farsa si aggirano intorno a una trattoria, va via senza pagare il conto.
Nato nel 1951, ottobre (bilancia, ma come tutti quelli della bilancia non crede nell'oroscopo). Giornalista dal 1973. Scrive anche altra roba. Ma gratis, quindi non vale.
3 ottobre 2013: la strage di Lampedusa (di Giampaolo Cassitta)
Il prete e il povero (di Cosimo Filigheddu)
I giornali di oggi (di Cosimo Filigheddu)
La mia ora di libertà (di Giampaolo Cassitta)
A vent’anni si è stupidi davvero. A 80 no. (di giampaolo Cassitta)
La musica ai tempi del corona virus: innocenti evasioni per l’anno che verrà. (di Giampaolo Cassitta)
Guarderò Sanremo. E allora? (di Giampaolo Cassitta)
Quel gran genio di Lucio Battisti (di Giampaolo Cassitta)
Capri d’agosto (di Roberta Pietrasanta)
Il caporalato, il caporale e i protettori (di Mimmia Fresu)
Marshmallow alla dopamina (di Rossella Dettori)
377 paesi vivibili (di Roberto Virdis)
Per i capelli che portiam (di Mimmia Fresu)
Inserisci il tuo indirizzo e-mail per iscriverti a questo blog, e ricevere via e-mail le notifiche di nuovi post.
Unisciti a 17.697 altri iscritti
Indirizzo e-mail
Iscriviti
sardegnablogger ©2014 created by XabyArt - graphic & web design