Io odio quelli buoni. Fanno il nido dappertutto. Te li ritrovi su Facebook che commentano i grandi drammi di cronaca e i fatti sociali più rilevanti dal loro punto di vista così pieno di comprensione e sacrificio. Tutti ragionieri del giudizio, che sanno assolvere assassini e altre compagnie di giro con un cipiglio tale che in realtà li stanno condannando. Io, sinceramente, dovendo ammazzare qualcuno, poi preferirei salire la forca piuttosto che subire il pat pat sulle spalle di questi buoni da social. Anch’io sono buono. Figuriamoci. Ma non lo vado a dire in giro. Anzi, sono convinto che i cattivi puri non esistano. Comunque dicevamo dei buoni e l’altra sera passando in piazza d’Italia ancora una volta mi sono chiesto se davvero il sole sorge dietro il palazzo della Provincia e di nuovo ho pensato a quella notte di tanti anni fa nella quale mi sono rotto i coglioni e ho fatto il cattivo e così facendo ho salvato la pelle a uno che si stava consumando dietro una piccola disgrazia esistenziale. Ero giovane, c’era ancora il vecchio gruppo di amici, quasi tutti erano ancora all’università, io ero uno dei pochi che già lavoravano. E sodo. La notte finivo in tipografia alle 2 o alle 3 e spesso la mattina dovevo essere alle 8,30 a Palazzo di Giustizia per fare la cronaca di qualche processo importante che non ne potevi perdere neppure una battuta. Perché allora certi processi erano eventi teatrali, che rendevi proprio con un linguaggio teatrale, indicando le parti e facendo le didascalie con le indicazioni sceniche, e raccontavano tutto ciò che emergeva dalle nebbie di istruttorie molto più inviolabili di quelle di adesso. Insomma, uno di noi aveva avuto un problema di donne. All’inizio sembrava una sciocchezza e invece prese a precipitare, a precipitare, a precipitare sino al punto che cominciammo a temere che la sciocchezza volesse farla lui. Allora scattò la socialità buonista e cominciammo a darci i turni per non lasciarlo solo. Io a dire il vero di turni di assistenza avevo poco tempo per farne. Ma un giorno mi fregarono dandomi il compito di fargli compagnia da fine lavoro sino a che lui non avesse preso sonno. Diedi quindi il cambio al precedente assistente intorno alle 3 di un mattino di inverno. Feci salire il depresso sulla mia macchina e posteggiai in piazza d’Italia. Allora si poteva salire sul marciapiedi e si puntava il muso della macchina verso la Provincia. Fumavamo tutti e due, il cielo era limpido e pieno di stelle, ma c’era un freddo da cagarsi e con i finestrini chiusi la macchina si riempì ben presto di vapori di tabacco che riciclavamo dentro i polmoni e dentro il cervello unendoli alla nebbia di nuove sigarette e di chiacchiere ripetute:
-Non ce la faccio più.
-Ma che cazzo dici, fra due giorni ti dimentichi tutto.
-Non penso che a lei.
-E’ finita, fattene una ragione, la tua vita sta cominciando ora.
-Stavamo per sposarci.
-E meno male che non lo avete fatto, pensa se aveste avuto figli.
Insomma, così per ore e ore, la voce sempre più rauca, gli occhi sempre più lacrimanti. Sino a quando attraverso il vetro appannato vidi il sole spuntare sul tetto del Palazzo della Provincia. E allora, in un improvviso accesso di pragmatismo, realizzai che di lì a poco mi sarei dovuto trovare in tribunale, carico di inutile stanchezza, magari senza neppure avere avuto il tempo di passare a casa per una doccia. E così mi rivolsi al mio amico e gli dissi con dolcezza:
-Senti, andate affanculo tu e quella grande bagassa. Ti vuoi impiccare? Impiccati. La corda te la trovo io. Legatela alle corna e non rompermi i coglioni. E ora scendi.
-Ma non mi accompagni a casa?
-No, ci vai a piedi.
-Ma…
-Ti ho detto di scendere e di andare affanculo.
Per moltissimi anni mi capitava ogni tanto di ritrovare questo amico, che nel frattempo aveva condotto una vita felicissima sino a che se n’è andato per motivi indipendenti dalla sua volontà, e continuava scopare come un riccio nonostante avesse la mia età, maledetto bastardo, e quando ci vedevamo rievocavamo quella notte. Lui diceva che come al solito ero impreciso e che non capiva come io avessi potuto fare per tutta la vita il giornalista:
-Il sole non era sorto dietro il Palazzo della Provincia.
-Ti dico di sì, lo ricordo benissimo.
-No, era sorto verso via Roma.
-Ma quale via Roma! Aspetta. Dunque, se noi diamo le spalle a Palazzo Giordano, dov’è l’Est?
-Coglione, l’Est è sempre nello stesso punto a qualsiasi palazzo noi diamo le spalle.
-Ci andiamo domani in piazza d’Italia all’alba e vediamo dove sorge il sole?
-Un cazzo! Io all’alba dormo.
Capito la gratitudine? Su dove sorge il sole non siamo mai andati d’accordo. Ma sul fatto che mandandolo affanculo gli avevo salvato la vita, neppure lui aveva dubbi.
Nato nel 1951, ottobre (bilancia, ma come tutti quelli della bilancia non crede nell'oroscopo). Giornalista dal 1973. Scrive anche altra roba. Ma gratis, quindi non vale.
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