Ieri ho celebrato il Pride con un pensiero. All’università avevo un professore che insegnava Estetica. Era tanto bravo che riuscì a farci piacere un complementare che comprendeva la lettura dell’intera Critica del Giudizio (tra l’altro, ora che sono vecchio, al concetto di bello per piacere, senza concettualità, ci sono arrivato per convinzione non per studio, dopo la scorpacciata esistenzial-marxiana di una vita). Ora vi aspettate che vi dica che questo professore era gay. Ma neppure per idea. Ero io a sentirmi tale tanto lo ammiravo. Mi ero preso una vera cotta per lui. Ed era indubitabilmente un maschio, cosa che nei miei vent’anni mi preoccupava e quindi mi interrogavo per scoprire se in quella cotta ci fosse qualcos’altro, oltre all’ammirazione. Mi rassicurava il fatto che non fosse particolarmente bello, anzi. Mi rassicurava perché la mia visione dell’omosessualità era piuttosto banale: pur conoscendo letterariamente bellissime storie di innamoramenti tra uomini brutti, nella vita reale pensavo che se eventuali mie tendenze nascoste fossero improvvisamente venute a galla, per rivelarle sarebbe stato necessario un uomo bellissimo.Io abitavo in un appartamento di studenti in una periferia cagliaritana piuttosto lontana dall’università. Allora non c’erano molti soldi per mantenerci fuori sede. Avevamo tutti la patente ma non la macchina e i mezzi pubblici costavano. Quindi d’abitudine si usciva di casa la mattina e si raggiungeva a piedi l’università dove ci si tratteneva tutto il giorno, sino a tarda sera, frequentando le lezioni, studiando in una delle biblioteche o in una stanza libera, e mangiando alla mensa della casa dello studente, giustapposta alla facoltà. Capitava che la sera si fosse stanchi. E così un pomeriggio, durante una lezione di Estetica, mi sentii scuotere per una spalla e udii una voce che mi sembrava provenire da un altro mondo: “FIligheddu, oggi sono particolarmente noioso o lei è particolarmente stanco?”. Mi ero addormentato e il professore cortesemente me lo aveva fatto notare. Per molti giorni analizzai il tipo di vergogna che avevo provato: era di carattere sentimentale, come se ti scappa un rutto davanti alla tua ragazza dopo un bicchiere di birra, o di tipo intellettuale (absit iniuria verbis), cioè il rammarico per una brutta figura nei confronti di quello che consideri un maestro? Arrivai a una conclusione importante e devo dire piuttosto avanzata rispetto ai tempi, che erano i primissimi anni Settanta: non me ne fotteva niente. Cioè, se avessi scoperto che ero omosessuale avrei preso coscienza della cosa senza troppi patemi e se invece avessi realizzato di non esserlo, non avrei tirato chissà quale sospiro di sollievo.Adesso se fossi a mia volta un maestro direi: ragazzi, fate anche voi così, fottetevene, avrete una vita più felice e contribuirete a renderla tale agli altri senza la vostra intolleranza che, quando c’è, nasconde paura e stupida vergogna.
Nato nel 1951, ottobre (bilancia, ma come tutti quelli della bilancia non crede nell'oroscopo). Giornalista dal 1973. Scrive anche altra roba. Ma gratis, quindi non vale.
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