Non è il clima natalizio che ci fa partire dalla Bibbia, giacché l’analfabetismo religioso degli italiani è direttamente proporzionale a quello civile, ma la realtà dei fatti, se vogliamo quantomeno essere onesti intellettualmente su un tema che in Italia subisce la consueta strumentalizzazione da parte di una classe intellettuale ridotta all’ipotrofia cerebrale e a una classe dirigente del tutto priva di senso pratico, prima ancora che ideologico e culturale. Nella Genesi (16:1-16) si racconta delle vicende familiari di Abramo e di Sara, sua moglie. Quest’ultima era sterile, un’orribile sventura per una donna che a quei tempi aveva l’unica funzione sociale di garantire la discendenza del patriarca di turno. Fu lei infatti, profondamente rattristata dalla sua sciagura, a suggerire al marito di «usare» la sua schiava Agar per garantirsi dei figli. Abramo, narra la Bibbia, accettò e Agar restò incinta. Ma la schiava capì quanto la sua posizione sociale fosse cambiata giacché lei poteva riprodursi mentre la sua padrona no, così iniziò a mettere alle strette Abramo che, come il più codardo dei maschi, scaricò la questione sulla moglie: «Ecco, la tua serva è in tuo potere; falle ciò che vuoi». Sara cacciò nel deserto Agar con il figlio Ismaele. A questo punto, Jahwé assunse il ruolo di assistente sociale per rimettere pace nella famiglia di Abramo: chiese ad Agar di tornare in cambio di un futuro assicurato al ragazzo. Il primo «utero in affitto» dunque lo troviamo proprio nel Libro dei Libri, chissà se i cattolici lo sanno, e il sistema della «maternità surrogata» (questi termini sono decisamente spregevoli) tra le tribù israelite continuò a funzionare per molto tempo. Per esempio con Giacobbe, un bigamo dichiarato sotto gli occhi consenzienti del Signore degli eserciti, che lo sperimentò a più riprese. La moglie Rachele gli disse: «Ecco la mia serva Bila; accostati a lei, così che essa partorisca sulle mie ginocchia e anch’io abbia una figliolanza per mezzo di essa», (Ge, 30:1–13). Giacobbe portò a casa due bei pargoletti. Lia, l’altra moglie, anche lei sterile, per non essere da meno consegnò la sua di schiava e Giacobbe ebbe altri due figli.Anche la nascita di Gesù non è propriamente ortodossa, Maria viene scelta come colei che dovrà partorire il figlio di dio. Certo, è il capo supremo che decide, ma di fatto Maria, in quanto donna, ancora una volta non esiste: è solo un utero.Se dunque partiamo da questo elemento antropologico e sul ruolo della donna nella storia umana fatta di patriarcati, la questione è ben più antica dei pruriti delle gerarchie ecclesiastiche e dei suoi kapò. Le coppie sterili ci sono da sempre, e quattro mila anni fa un patriarca che non fosse in grado di garantirsi una sua discendenza era una bestemmia di fronte a dio. Non c’erano parlamenti o commissioni mediche, non c’erano le femministe, Giovanardi o Adinolfi a sbraitare su questo tema. Si risolveva tutto in famiglia e quando la situazione si complicava, interveniva direttamente Lui. In ogni caso se la sposa, dopo molti tentativi capiva che non era in grado di concepire, dava l’ok al marito che si portava a letto una schiava. Il figlio sarebbe stato a tutti gli effetti della coppia sposata con i dogmi e le usanze religione, come piace tanto ai vescovi dell’ultimo Sinodo. Che cosa accade oggi invece di fronte al tema della maternità surrogata? Qui in Italia al solito si sovrappongono temi quali l’utero in affitto con la «omogenitorialità», il tema del mercato dei bambini, la distruzione della famiglia tradizione o lo sfruttamento delle donne; ma ancora una volta per spostare l’attenzione dal vero tema: l’autodeterminazione del corpo.Perché è evidente che in un sistema sociale come il nostro dove tutto è mercato, c’è il concreto rischio di una compravendita di esseri umani tra chi può pagare anche per affittare un «utero» e chi invece non può altro che noleggiarlo a pagamento. Ma se non si riesce a capire che tra Elton John e i suoi privilegi da rock-star milionaria e capricciosa e le sciocchezze sui figli sintetici di D&G – che poi per ragioni di marketing sono stati costretti a fare marcia indietro, anche perché a chi le vendono poi le loro orribili pacchianate se non agli stessi gay che ora gli si rivoltano contro? –, c’è in mezzo le scelte sofferte e la responsabilità di molte coppie eterosessuali, e qualche coppia gay, a cui è vietata o impedita l’adozione e il cui desiderio di essere genitori è più forte dei pregiudizi, siamo proprio in alto mare. Definiamo il tema: la surrogazione di maternità, nella così detta fecondazione assistita, è quella pratica medica intrapresa dalla donna (madre portante) che assuma l’obbligo di provvedere alla gestazione e dunque al parto per conto di una terza persona o di una coppia sterile, impegnandosi di consegnare alla fine della gestazione il nascituro. Può essere effettuata sia con il seme e gli ovuli della coppia sterile che con quelli di donatori e donatrici attraverso un concepimento in vitro. La normativa italiana (incarnata dalla famigerata legge 40, una legge razzista e bacchettona che se l’avesse scritta un pool di santoni ortodossi medievali sarebbe stata meno imbarazzante) vieta di ricorrere a una madre surrogata per poter avere un figlio con il proprio dna. Però in molti paesi questa pratica è legale. Così, fatta la legge si trova subito come fare l’inganno e molte coppie (gay compresi), quelle che hanno il portafogli pieno, vanno all’estero spendendo fino ai 120mila euro. Poi tornano e inizia per loro il calvario legale per il riconoscimento di entrambe i genitori.Contro questa pratica medica di recente si sono scagliate persino le femministe (l’attrice Stefania Sandrelli, la regista Cristina Comencini, Dacia Maraini, ma anche l’archeologo Paolo Matthiae, le Suore orsoline di Casa Rut a Caserta, Claudio Amendola, spiega l’Espresso, sono tra i firmatari dell’appello promosso dall’associazione «SeNonOraQuando Libere» e rilanciato da La Repubblica con un articolo dal titolo «Femministe contro l’utero in affitto». L’appello chiede che la maternità surrogata, già vietata in Italia dalla legge 40, venga messa al bando nel resto d’Europa). Sì proprio loro che un tempo urlavano «l’utero è mio e me lo gestisco io!». Sono convinte che non si può accettare ciò che la tecnica rende possibile in nome di presunti diritti individuali. In altri termini, le femministe paventano il rischio che attraverso questa pratica, le donne tornino indietro invece di progredire quando appunto la discriminante per esempio è economica. Se deve sopravvivere, ancora una volta la donna vende il proprio corpo, come accade nella prostituzione. Questo è il nocciolo del problema. O ancora meglio, come nella pornografia, giacché le femministe si scagliarono ai tempi anche contro di essa, in quanto il corpo della donna sarebbe mercificato per il piacere del maschio padrone.
È difficile non essere d’accordo di fronte a un simile argomento etico e dunque politico, ma c’è un però e questo però è che le femministe loro malgrado sono cadute nella trappola ideologica clerico-fascista che ancora una volta vuole educare e dunque censurare un certo comportamento umano. Innanzitutto, le femministe dovrebbero spiegarmi perché la libertà della donna non può passare anche per la mercificazione del proprio corpo e nello specifico dell’utero. Dove c’è scritto e chi l’ha detto? Esiste una netta differenza tra chi decide con coscienza di prostituirsi e chi invece è costretta per fini economici. Quindi se di libertà si parla, la libertà non può essere vincolata da nessuno: né dalle religione, né dalle femministe o chi fa per esse. Gli abusi e i soprusi devono essere puniti per legge, le scelte no. Io nelle pornostar di oggi non intravvedo una sottomissione al potere maschile, per esempio, ma solo un’idea imprenditoriale molto furba oltre la consapevolezza di piacere: se gli uomini desiderano quel modello di femmina, c’è chi ha deciso di incarnarlo per farne un business. Allora, che problema c’è? Secondo, perché ci si preoccupa tanto di questo tema e non di altri, come per esempio l’impossibilità per molte donne ancora oggi di accedere agli studi o a un lavoro retribuito come quello degli uomini? Se allarghiamo ancora un po’ il nostro orizzonte d’analisi, ci accorgiamo che la questione è ancora più complessa. Se voglio veramente sostenere che «il corpo non può solo essere un mezzo» bisognerebbe vietare le donazioni, come sostengono i Testimoni di Geova, di midollo, dei reni o di altri parti del corpo. Ma questo le femministe non lo chiedono. Sicché è facile intuire che il corpo non è tutto uguale neppure per chi ha fatto della liberazione sessuale una bandiera: le parti legate al sesso sono meno uguali delle altre. L’utero nello specifico è quella parte del corpo che permette all’umanità di riprodursi e quindi, come il fallo, è oggetto di controllo da parte del potere. Autodeterminando il proprio corpo, la donna commette un reato di fronte al patriarcato, ancora oggi come ieri, sollevando le indignazioni di chi parla di progetti divini ovvero i kapò del meccanismo di potere (religioso e laico).
Quindi l’appello delle femministe, esattamente come gli argomenti degli integralisti cattolici e dei fascistoni che cantano Tu scendi dalle stelle, è ipocrita, anacronistico, bacchettone, superficiale, stolto perché incapace di affrontare il tema, arrogante quanto pretenzioso, perché non tiene conte che il divieto produce solo discriminazione. Se veramente si vuole tutelare la donna dai pericoli della mercificazione, basterebbe creare le condizioni per le quali lo sfruttamento, in tutte le sue forme, non accada più, garantendo servizi e diritti, garantendo per esempio alle madri single tutte le risolse economiche necessarie affinché non siano mai costrette a ricorrere a qualcosa che non desiderano fare. Oppure facilitando le adozioni di tutti i tipi, perché l’adozione è il più grande gesto d’amore che una coppia o un sigle possa fare nei confronti di un altro essere umano più sfortunato. Qui e solo qui entra in gioco anche la questione dell’omogenitorialità.Diverse famiglie gay (e non mi riferisco a famosi artisti milionari ma a persone che ogni giorno vivono tra la gente) che hanno ricorso all’utero in affitto volevano intraprendere la strada dell’adozione, ma questa gli è stata impedita. Ciò è un punto fondamentale: è meglio che un bambino sia adottato da una coppia gay o che rimanga in Africa? Se una persona ritiene che è meglio la seconda ipotesi, significa che è umanamente ed eticamente morta. Oltre ad offendere tutte le lesbiche e gli omosessuali del mondo, ottenebrata dalle mostruosità ideologiche, una persona di questo tipo preferisce la sofferenza a una felicità vera, pulita e garantita dall’amore. Per il resto, le domande rimangono tutte aperte: sono molte, difficili, articolate. Nessuno ha una risposta convincente e me ne guardo bene dal darla io. Diverse famiglie omosessuali italiane, come quella del giornalista Claudio Rossi Marcelli e il suo compagno Manlio, che hanno ricorso alla maternità surrogata, dimostrano che l’amore è più forte di ogni forma di arroganza. Con quale diritto noi giudichiamo queste famiglie, senza neppure conoscerle nel profondo? Anch’io sono lacerato da dubbi e dalle incertezze, ma mi lascio coinvolgere dalle esperienze coraggiose degli altri, sperando di capire qualcosa di più dalla vita. Sarebbe quindi meglio evitare certi appelli ridicoli, soprattutto quando poi ci mettono la firma anche gay cattolici in cerca di visibilità per uno sgabello verso il potere. Cerchiamo invece con serietà di promuovere leggi che diano alla magistratura gli strumenti perché nessuna donna subisca mai più una sola violenza e perché tutti i bambini del mondo possano gioire della vita. Il resto, come diceva il filosofo Harry Frankfurt, sono solo stronzate!
In questa categoria sono riuniti una serie di autori che, pur non facendo parte della redazione di Sardegna blogger collaborano, inviandoci i loro pezzi, che trovate sia sotto questa voce che sotto le altre categorie. I contributi sono molti e tutti selezionati dalla redazione e gli autori sono tutti molto, ma molto bravi.
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