Assistere a “The Wolf of Wall Street” di Scorsese è stato impressionante, lo è stato sin dal primo momento perché sapevo trattarsi di una storia vera. Infatti, un’ora dopo, ci sto ancora riflettendo sopra.
Un agente di borsa americano, grazie alla sua diabolica capacità di persuasione, piazza ovunque azioni spazzatura di improbabili aziende, traendone profitti favolosi che poi investe per fondare una società che condivide con bizzarri compagni d’affari raccattati per strada. Ma, soprattutto, i guadagni li sperpera in ogni possibile droga, in puttane, fuoriserie, yacht ed eccessi di ogni genere, tra cui un matrimonio costato due milioni di dollari.
La sua vita e quelle dei suoi soci scorrono in una specie di bolla: devono farsi di cocaina e qualunque altra porcheria chimica per continuare a lavorare ed accumulare denaro a ritmi umanamente insostenibili. Ad un certo punto non si capisce più se si droghino per fare soldi o se debbano fare soldi per drogarsi, comunque sia la società si allarga assumendo decine di dipendenti, anch’essi coinvolti in quell’ebbrezza artificiosa, attori dei surreali riti tribali imposti dal capo per segnare l’appartenenza al gruppo. Nella sede vengono inscenate orge, spogliarelli, festini ed ogni forma di depravazione è tollerata, purché favorisca il rendimento sul lavoro dei dipendenti.
La storia finisce in uno scattare di manette ai polsi per una maxi evasione fiscale scoperta dal FBI.
Una storia molto americana, si dirà. Ma io mi sono ricordato di una volta in cui, non so come, due conoscenti mi coinvolsero in una convention organizzata in un albergo da una società di vendite. Credo si chiamasse Millionaire. Roba d’una ventina d’anni fa, più o meno i tempi in cui avvenivano i fatti del film. Reclutavano gente che voleva piazzare prodotti porta a porta e un capo area teneva una lezione sui requisiti psicologici del perfetto venditore, cenni intervallati da filmati sulle premiazioni dei migliori agenti sul territorio nazionale. Ne ricordo uno che saltava dalla gioia su un palco di chissà quale teatro italiano, mentre gli veniva consegnato un assegno da 91 milioni di lire per le sue prestazioni annue.
C’era un tizio, tra le poltrone della sala convegni, che era d’accordo col capo area e ogni tanto urlava incitamenti e slogan cui faceva seguire un applauso in cui, ben presto, gli altri partecipanti si lasciavano trascinare. Era una finzione raggelante, creata solo per suggestionare e convincere qualcuno ad entrare nel circuito. Probabilmente ripetevano la gag in ogni piazza in cui tenevano le loro conferenze. Ecco, l’uomo dell’applauso aveva occhi spiritati: gli leggevi tra le palpebre il desiderio bavoso di denaro, l’ambizione, l’essere disposto a tutto pur di arrivare. Erano gli stessi occhi di Leonardo Di Caprio nelle vesti del broker senza scrupoli Jordan Belfort, la cui autobiografia SCorsese ha reso in questo kolossal hollywodiano. Non c’è bisogno di andare in America per trovare gente simile.
Nato nel 1971 ad Arzachena ed ivi smisuratamente ingrassato negli anni seguenti, figlio di camionista e casalinga. Titoli appesi alle pareti: laurea in Lettere moderne all'Università di Sassari, iscrizione all'albo dei giornalisti professionisti, guida nazionale di mountain bike, presidente della Asd Smeraldabike, direttore della testata Sardegnablogger. È stato redattore di tre diversi quotidiani sardi: dal primo è stato licenziato, gli altri due sono falliti. Nel novembre del 2014 è uscito il suo primo romanzo, "Cosa conta".
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