(Estratto dell’intervento al convegno WWF – Urban Nature – L’equilibrio ambientale in città – Sassari 31 ottobre 2017) Nel 1971 Barry Commoner scrisse il libro che rappresentò un punto di partenza fondamentale del movimento ecologista internazionale: “Il Cerchio da Chiudere”. Secondo il biologo statunitense, infatti, la specie umana stava interrompendo i cicli della natura, comportando lo squilibrio irreversibile dell’intero pianeta. Tutta la natura, infatti, si esprime per cicli: il ciclo dell’acqua, delle stagioni, degli astri, delle rocce, dell’azoto, la catena alimentare, la fotosintesi clorofilliana. La natura ha la prerogativa di essere ciclica, quindi, in un certo senso, perfetta: solo l’uomo, negli ultimi decenni, è intervenuto con la sua carica entropica per spezzare la perfezione di quei cicli, portando il disordine. Così inquinamento, estinzione precoce di specie animali e vegetali, disboscamento estensivo, urbanizzazione selvaggia si sono diffusi per il pianeta. L’uomo è riuscito, pensate, a modificare persino il clima, una cosa che, anticamente, si credeva prerogativa esclusiva degli dei. Nel paleolitico gli esseri umani vivevano in simbiosi con la natura. Praticavano la caccia, la raccolta, lo “slash and burn”, ossia il “taglia e brucia”, una forma di agricoltura itinerante che, a differenza di quanto si sostiene da alcune parti, non solo non era nociva per la foresta ma, anzi, la aiutava a rigenerarsi, creando spazio, aria e luce all’interno dell’ecosistema forestale, e consentendo, così, una certa rinnovazione con la successiva ricrescita di piante giovani al posto di quelle vetuste. Il paleolitico non era il Giardino dell’Eden, già da allora la specie umana manifestava la sua “tara” perniciosa, tuttavia gli squilibri che provocava sulla natura erano limitati. Durante il periodo neolitico, con la rivoluzione agricola, l’uomo da nomade divenne sedentario, e incominciò a sentirsi legato ad un territorio. Si trattava di una domesticazione della natura, con la lenta trasformazione delle specie vegetali coltivate e animali allevate. Una trasformazione della terra che, tuttavia, in qualche modo, riusciva comunque, per imitazione dei cicli della natura, a “chiudere il cerchio”. La civiltà contadina, infatti, fino alle soglie della modernità, produceva un sistema ecologico artificiale che imitava, in un certo senso, quello naturale: il campo agricolo infatti produceva il nutrimento per gli uomini e gli animali i quali, a loro volta, con le loro deiezioni, lo fertilizzavano. Attorno al campo coltivato il bosco produceva sostanza organica, e gli animali che vi dimoravano, specialmente l’ornitofauna, erano una sorta di “pesticida” naturale, nutrendosi degli insetti nocivi. Non si buttava via nulla, come si usava dire del maiale, gli sprechi erano inesistenti e non esisteva la civiltà dei consumi con la sua plastica e il suo “usa e getta”. Quando un attrezzo di legno si rompeva, finiva nel caminetto per produrre calore. Gli scarti del cibo venivano dati al maiale e agli altri animali. Il cerchio, in un modo o nell’altro, si chiudeva. Con la civiltà agricola nasceva anche un nuovo sistema abitativo, la città, centro direzionale che governava il territorio e sovrintendeva ai commerci. Oggi la città, in qualche modo, impone la sua “impronta ecologica” sul territorio circostante. La città infatti è dal punto di vista energetico “passiva”, cioè assorbe energia dall’esterno. Con la “globalizzazione”, questa impronta ecologica della città finisce per essere tentacolare e raggiungere luoghi molto lontani dalla metropoli. Questa impronta, a differenza del ciclo agricolo, non “chiude il cerchio”, ma al contrario lo spezza, creando una linea retta che consuma l’energia non rinnovabile del pianeta, inquina aria, suolo e acque, e produce montagne di rifiuti. Nell’antichità, questa impronta veniva assorbita dalle campagne circostanti. I contadini raccoglievano il letame delle città e gli scarti del cibo, e con i loro prodotti così fertilizzati e gli animali così nutriti potevano avere quel surplus in grado di restituire i prodotti alimentari alla città. Oggi, tuttavia, anche la civiltà tradizionale agricola ha lasciato il posto alla rottura del ciclo, con l’utilizzo massiccio di prodotti industriali, fertilizzanti, pesticidi, macchine agricole, come ha spiegato bene la scienziata indiana Vandana Shiva. Il mondo ha seguito la strada tracciata dalla civiltà urbana, ha finito per rompere il ciclo naturale delle cose, provocando il disordine entropico con consumo di energia, come quella contenuta nei combustibili fossili, immagazzinata dalla natura nel corso della storia geologica del pianeta, e rilasciando le cosiddette “esternalità” ambientali, ovvero i residui, gli scarti, le tossine, i rifiuti, nell’ambiente circostante. Il problema dell’uomo moderno e in particolare della città, oggi, è come collocare, stoccare, smaltire tutte queste esternalità ambientali. Tutta questa premessa, insomma, per focalizzare questo incontro sul tema ecologico della città, e per comprendere i presupposti fondamentali che stanno alla base di ogni politica ecologica urbana. In questi giorni, a causa anche dei cambiamenti climatici, alcune metropoli della Pianura Padana sono interessate da gravi forme di inquinamento dell’aria. E abbiamo visto come, periodicamente, alcune grandi città vengono sommerse da montagne di rifiuti, a causa della difficoltà di smaltimento di una produzione che, nonostante la crisi economica, aumenta sempre di più. Si potrebbe dire, osservando le alluvioni e gli allagamenti che sempre di più interessano le nostre città, che la natura bussa in città, la rioccupa, come a voler comunicare il proprio disagio per gli abusi compiuti dall’uomo. Ma l’acqua che irrompe, come l’inquinamento dell’aria provocato dagli scarichi delle automobili, delle industrie e del riscaldamento domestico, altro non sono che l’effetto, oltre che degli abusi dell’uomo, di un modello urbanistico che negli anni si è sempre di più allontanato da quel cerchio naturale citato. Questo è il motivo per cui, da alcuni anni, ci si è resi conto che, tutto sommato, Barry Commoner non aveva tutti i torti. La raccolta differenziata, ad esempio, che oggi è diventata routine per il cittadino coscienzioso, altro non è che la ricerca iniziale di recuperare quei cicli naturali ormai dimenticati. Con i residui organici, infatti, si producono fertilizzati per l’agricoltura, i rifiuti solidi vengono utilizzati per la produzione di energia, vetro e carta vengono riciclati per la produzione di nuovo materiale. La città, dunque, si riconverte, giocoforza, alla natura ciclica delle cose. Anche perché, sempre di più, la natura si ribella a questi soprusi riversando sulla specie umana tutta la sua minacciosa forza. La città ha bisogno di spazio, ha bisogno di luce, ha bisogno di respirare. In un certo senso, l’indio dell’Amazzonia, che ancora oggi pratica il taglia e brucia nella giungla, ha qualcosa da insegnarci, specie quando parla del sacro spirito del bosco, che altro non è, tradotto nel nostro linguaggio razionalista, che il legame che mette insieme gli organismi viventi con l’ambiente. La cultura urbana, pertanto, ci ha allontanato progressivamente dalla natura, ci ha espulso dal ciclo naturale delle cose. E non basta il semplice contatto fisico con essa, per recuperare un dialogo. Tuttavia, il nostro organismo continua ad essere “naturale”, anche senza volerlo, anche se la nostra cultura agisce in termini lineari e non ciclici. Forse le donne, questo natura ciclica, la possono percepire meglio degli uomini. La cultura che si allontana dalla natura, pertanto, altro non è che alimentare una lacerazione interiore e alienarsi il proprio corpo, il proprio organismo. Tutto ciò produce la cosiddetta “alienazione” dell’uomo moderno, la perdita di motivazioni, la tristezza, la depressione, il disorientamento, l’abuso di psicofarmaci. Ristabilire un dialogo con la natura, significa dunque ristabilire, molto semplicemente, per prima cosa, un dialogo col nostro organismo. Sentirsi e ascoltarsi, fare attività fisica, camminare, passeggiare, andare in bicicletta, stare all’aria aperta, attivare la mente, leggere, giocare, ridere, socializzare, ascoltare musica, fare l’amore, mangiare cibi sani. In una parola, volere bene al proprio corpo, volersi bene. Solo in questo modo l’ambiente urbano, che altro non è che la proiezione della nostra ecologia mentale, potrà incominciare ad essere progettato per rendere la nostra vita più naturale e vivibile.
Fiorenzo Caterini, cagliaritano classe '65. Scrittore, antropologo e ambientalista, è studioso di storia, natura e cultura della Sardegna. Ispettore del Corpo Forestale, escursionista e amante degli sport all'aria aperta (è stato più volte campione sardo di triathlon), è contro ogni forma di etnocentrismo e barriera culturale. Ha scritto "Colpi di Scure e Sensi di Colpa", sulla storia del disboscamento della Sardegna, e "La Mano Destra della Storia", sul problema storiografico sardo. Il suo ultimo libro è invece un romanzo a sfondo neuroscientifico, "La notte in fondo al mare".
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