Ci fu un periodo della vita, ero poco più che un ragazzo, in cui venni investito dalla passione per il tennis. Erano i primi anni novanta e perdevo ore davanti alla televisione per seguire le partite di Pete Sampras e André Agassi, raccontate con toni epici da Rino Tommasi e Gianni Clerici. Da uno dei più abili giocatori del paese acquistai una racchetta da professionista e ogni tanto me ne andavo al tennis club, cercando qualcuno disposto a sfidarmi. Poi, dopo lunghe insistenze, convinsi mio fratello – che se la cavava – a giocare una partita con me. Era il 23 maggio del 1992. Un pomeriggio caldo, si respirava quell’aria di mezzo tra primavera matura ed estate. Con la coda dell’occhio seguii il passo del gestore dei campi che, uscito dalla clubhouse, scese i tre gradini tra un livello e l’altro dell’impianto, muovendosi verso di noi. Appoggiò le mani alla recinzione del campo e attese che lo scambio finisse. Ricordo la mestizia nei suoi occhi e queste parole pronunciate con rispetto, come una levata di cappello davanti al passaggio di una bara: “Avete saputo dell’attentato a Falcone?”. Il gestore dei campi aveva indossato per tutta la vita una divisa, prima di ritirarsi al tennis club era stato un uomo di Stato anche lui. Mi fece impressione la sua desolazione. Lo conoscevo come un uomo forte, dalla voce potente e i modi perentori. Noi non sapevamo nulla, eravamo dei ragazzi che non sapevano nulla. Restò lì, con le mani appoggiate alla recinzione. E noi, da ragazzi che non sapevamo nulla, capimmo che era meglio rinfoderare le racchette e smettere di giocare: lui voleva dircelo, senza dircelo, che non era il momento di schiaffeggiare una pallina da un capo all’altro di una rete. Non era il momento di fare rumore, quel botto a Capaci era arrivato sin qui: era il momento del silenzio. L’angoscia composta del gestore dei campi mi trasportò al 1978, sul pianerottolo al secondo piano del vecchio condominio in cui abitai da bambino. Dovevo ancora compiere sette anni e non riuscivo a capire perché l’anziana della casa di fronte, in piedi davanti alla porta della nostra casa, piangesse disperata. Sentivo nominare un certo Moro, una certa via Fani e certi terroristi, capivo che era successo qualcosa di grave ma non potevo capire cosa. Però quel flash ce l’ho ancora registrato nella memoria, come il momento di una improvvisa presa di coscienza civile. Credo che, in questi momenti della storia, la tristezza della gente comune riveli un senso della comunità, un senso di comune destino, la gratitudine per chi nel senso del dovere crede sino alla morte. Anche se vogliono farci credere che non sia così, quel senso dello stare assieme esiste e non è solo l’inno prima di una partita della nazionale a risvegliarlo. Per quanto mi riguarda, io dal 23 maggio del 1992 non ho più toccato la racchetta. Credo sia ancora là a casa dei miei, nascosta da qualche parte, ma non l’ho più toccata. Forse è stato il mio modo, inconsapevole, di segnare un distacco, una forma di lutto, forse anche ridicola. Però è andata così. Il mondo del tennis mondiale non ha perso niente.
Nato nel 1971 ad Arzachena ed ivi smisuratamente ingrassato negli anni seguenti, figlio di camionista e casalinga. Titoli appesi alle pareti: laurea in Lettere moderne all'Università di Sassari, iscrizione all'albo dei giornalisti professionisti, guida nazionale di mountain bike, presidente della Asd Smeraldabike, direttore della testata Sardegnablogger. È stato redattore di tre diversi quotidiani sardi: dal primo è stato licenziato, gli altri due sono falliti. Nel novembre del 2014 è uscito il suo primo romanzo, "Cosa conta".
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