“Prima o poi arriva il momento in cui devo fare spazio al nuovo e rinunciare a qualcosa che i miei genitori avevano custodito per 25/30 anni. Da questo momento in poi porterò con me soltanto dei ricordi mentre le coppe finiranno all’Ecocentro.” Riporto integralmente il commento di Giorgio Pisano, uno dei più forti mezzofondisti sardi degli anni ’90, nonché amico che ha condiviso con me, fin dalla prima media, le aspirazioni e le trepidazioni di un giovane appassionato di atletica. Erano gli anni in cui ci si allenava per le strade di campagna, e la domenica si partiva per il paese dove era prevista la gara su strada. Ricordo quando vinsi il mio primo trofeo, forse avevo undici anni. Arrivai terzo in una gara a Selargius, e secondo arrivò Giorgio. Vinse un ragazzo di Carbonia, se non ricordo male. Rientrai trionfante e trepidante a casa con quel trofeo, suscitando i festeggiamenti dei familiari. Restai del tempo a contemplare quell’oggetto, che rappresentava nel mio immaginario di ragazzino il raggiungimento di un traguardo di gloria. La specialità del mezzofondo è faticosa, specie per un giovane che non ha ancora sviluppato determinati adattamenti. Le gare erano sofferte di mal di milza, mal di fegato, mal di stomaco. Ma era il perseguimento di un sogno. Al termine di ogni allenamento, con Giorgio e gli altri compagni, si rievocavano le gesta dei grandi mezzofondisti dell’epoca, Steve Ovett, Sebastian Coe, Miruts Yfter, Venanzio Ortis, Alberto Cova. I nostri sogni e i nostri sacrifici si materializzavano poi in quella coppa, in quel trofeo, in quella targa che riportavamo a casa trionfanti. Era il terminale dei sacrifici fatti, e il proseguimento della speranza. Con il tempo, nelle scuole superiori, quei sacrifici diventavano ancora più seri. Ci si alzava molto presto la mattina, perché c’era anche da studiare. Ricordo lunghi allenamenti, la mattina presto, nelle strade delle campagne di Sant’Isidoro, a Quartucciu, assonnato dietro il pimpante Giorgio, che spesso mi trascinava con il suo entusiasmo. Io ero un po’ più velocista di Giorgio, per cui soffrivo gli allenamenti lunghi. Ma a furia di stargli appresso, imparai a resistere ai più forti mezzofondisti sardi di categoria, sicché iniziai, da allievo, a vincere parecchie gare, aspettando il momento giusto per piazzare il mio sprint finale. La casa iniziò così a riempirsi di coppe. Mia madre ormai accoglieva scherzosamente quei trofei, sempre nel clima di festa familiare, ma stavolta con un “ecco un altro barattolo da spolverare”. E crescendo, quella magia da Babbo Natale dell’oggetto glorioso, iniziò ad essere sostituito da altre esigenze. Così nelle categorie superiori eravamo ben felici di integrare le nostre misere paghette con i premi in denaro riservati ai “grandi”. Poi le mie strade con Giorgio si divisero, io dovetti alla fine cambiare sport, a causa dei continui infortuni, ed ebbi una nuova e soddisfacente vita sportiva nel triathlon, Giorgio mise a frutto il suo talento vincendo, tra l’altro, ben 5 titoli sardi di corsa campestre, in un periodo in cui la concorrenza era affollata di grandi campioni. Arriva però il giorno in cui quegli oggetti diventano un inutile ingombro, così opacizzati e arrugginiti. All’ingombro degli oggetti, non si associa, però, quello dei ricordi, sembra voler dire Giorgio. Eppure, se devo essere sincero, io ho solo vaghi ricordi delle gare oggi rappresentate da quelle decine di coppe che ho messo dentro scatoloni chiusi in cantina. Troppo tempo è passato. Ho solo flash, immagini e ricordi confusi, eccetto, forse, alcune vittorie particolarmente belle. Viviamo in bilico sul cursore del presente. Un cursore che si sposta continuamente in avanti, lasciando un passato dietro sempre più grande e un futuro ignoto sempre più piccolo. La direzione che prende il cursore del presente, però, è il frutto delle esperienze di quel passato sempre più gonfio di ricordi. E’ il passato che indica la via, la direzione che prenderà il nostro futuro. Ecco, io penso che quei trofei, relegati in cantina o inviati nel loro ultimo viaggio all’ecocentro, rappresentano qualcosa di più della nostalgica materializzazione di vecchi ricordi. Sono l’espressione più alta della gratificazione che tutti gli esseri umani ricercano sin da quando sono nella culla. Una gratificazione che, nella sua magia infantile e adolescenziale, esprime il frutto di un impegno serio, onesto e leale, di sane e vitali aspirazioni, di momenti vissuti insieme a compagni di avventura che hanno reso, grazie ai valori dello sport, il senso dell’amicizia eterno. Se in quel futuro ignoto, anche se sempre più breve, che ci resta da esplorare, la direzione del nostro cursore sarà indirizzato verso l’impegno, il sacrificio, l’onestà, la lealtà, sarà anche grazie a quelle coppe e a quei trofei, che hanno consentito, all’animo del ragazzino di allora, e anche, si spera, dei ragazzini che verranno, di credere che tutti quei sacrifici onesti, alla fine, possono essere davvero ripagati. Come nei sogni.
Fiorenzo Caterini, cagliaritano classe '65. Scrittore, antropologo e ambientalista, è studioso di storia, natura e cultura della Sardegna. Ispettore del Corpo Forestale, escursionista e amante degli sport all'aria aperta (è stato più volte campione sardo di triathlon), è contro ogni forma di etnocentrismo e barriera culturale. Ha scritto "Colpi di Scure e Sensi di Colpa", sulla storia del disboscamento della Sardegna, e "La Mano Destra della Storia", sul problema storiografico sardo. Il suo ultimo libro è invece un romanzo a sfondo neuroscientifico, "La notte in fondo al mare".
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