A volte immagino che la Sassari post giacobina e la Sassari ferocemente post feudale di duecento anni fa ancora si accapiglino a sangue per avere il primato dell’anima vera della mia città. Di chi siamo eredi noi che a ogni reato invochiamo su Facebook lo stato di polizia e al bar la pena di morte? Di Cilocco, il notaio illuminista venuto da Cagliari per portarci libertà e progresso, o del Duca dell’Asinara, che affacciato alla finestra del suo palazzo incitava il boia a torturarlo con maggiore impegno mentre lo portava alle forche del Carmine Vecchio?La Macchina del Tempo di oggi mi apre una pagina sulle prime settimane del 1869, quando a Sassari avvenne l’ultima esecuzione capitale: vent’anni prima che in Italia, con la riforma Zanardelli del codice penale, la pena di morte venisse abolita (a rimetterla in vigore pensò il Fascismo nel 1926 e venne cancellata per la seconda volta nel 1948).Sino a quel giorno di febbraio, comunque, a Sassari si impiccava e si squartava alla grande e con grande concorso di popolo. Cesare Beccaria, con il suo opuscolo “Dei delitti e delle pene” pubblicato nel 1764 e arrivato anche a Sassari in un buon numero di copie, non scoraggiò coloro che in città dispensavano la giustizia, che erano tutt’uno con quelli che detenevano la ricchezza ed esercitavano il potere.Il Settecento piemontese, a Sassari, in quanto a barbarie somministrata sotto forma di legge, fu una prosecuzione forse anche più feroce della dominazione spagnola. E più che i piemontesi, a rendere più feroce la giustizia erano i feudatari locali, disperatamente aggrappati ai loro ormai anacronistici privilegi. Il popolo veniva incoraggiato ad assistere alle esecuzioni capitali come fossero uno spettacolo. Nel 1765, quando già Beccaria aveva portato l’Europa a riflettere sull’inutilità e i danni della pena di morte, Pietro Giuseppe Graneri, giudice della Real Udienza di Sardegna (sposato con una nobildonna sassarese i cui interessi difendeva anche a costo di scandalose incompatibilità) lamentava il fatto che a Sassari soltanto poco pubblico assistesse alle esecuzioni capitali, limitandone così il valore di esempio e deterrenza. Accusa ingiusta, peraltro, perché le cronache parlano di folle schiamazzanti e di gruppi di bambini e ragazzi portati in fila dai precettori religiosi e laici ad assistere allo spettacolo. Neppure il fatto che nel 1761 venisse beccato un borseggiatore (immediatamente ridotto a cristo in croce a forza di frustate) che alleggeriva gli spettatori appunto di una impiccagione, indusse a riflettere che il valore deterrente di questa pena era quanto meno discutibile.La morte del condannato non era la fredda e rapida eliminazione di un rifiuto della società, doveva essere dolorosa e l’agonia quanto più lunga possibile. Riferisce Enrico Costa che, il 3 luglio 1803, il Governatore di Sassari, il famigerato Valentino che aveva torturato e ucciso i seguaci di Angioy, raccontò in una lettera al vicerè “lo spiacevole infortunio” capitato a un tale Dettori di Pattada, colto da un attacco apoplettico prima della sua esecuzione. Ne parla con rincrescimento, con i toni di chi informa della cancellazione di una serata all’opera per un malore del soprano. Si impiccava e si squartava soprattutto alle Forche del Carmine Vecchio, che il bravissimo ricercatore Piero Atzori ha proprio in questi giorni localizzato in un determinato punto di via Quarto, tra piazza D’Armi e via Repubblica Romana. Atzori ne ha informato per ora soltanto pochi amici ma mi auguro che pubblichi al più presto ciò che ha scoperto sul Carmine Vecchio e sulla fine dei seguaci di Giovanni Maria Angioy in un libro che si preannuncia tra i più interessanti.Nel 1856 lo spettacolo della forca si spostò verso la chiesa di San Paolo, vicino al cimitero. Sino a quell’inizio del 1869 di cui parlavamo. Il primattore quel giorno era un contadino di Chiaramonti, un certo Truddaiu, 36 anni. Il boia, poco esperto, non riusciva a fissare la corda al chiodo della forca; infine si spazientì, legò la canapa a un piolo della scala e strangolò con maldestra ferocia Truddaiu, che ebbe una lunga e raccapricciante agonia.I buoni sassaresi, finalmente turbati, si indignarono e non ci furono più esecuzioni pubbliche.
(L’immagine in alto è tratta dall’ “Archivio pittorico della città di Sassari” di Enrico Costa. Ed. Chiarella)
Nato nel 1951, ottobre (bilancia, ma come tutti quelli della bilancia non crede nell'oroscopo). Giornalista dal 1973. Scrive anche altra roba. Ma gratis, quindi non vale.
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