Quanto varrebbe una Sardegna senza spiagge?
Oggi l’assessore all’Ambiente del Comune di Arzachena annuncia drastiche limitazioni all’accesso nella spiaggia di Capriccioli, perla della Costa Smeralda. Degradata, danneggiata negli anni dalle violente pulizie eseguite con bulldozer e camion.
Credo l’iniziativa sia condivisibile. Ma è significativamente tardiva, esempio illuminante della lentezza e dei condizionamenti che limitano efficacia ed autonomia delle amministrazioni locali.
Per arrivare ad ammettere il disastro si è dovuto attendere per dieci anni. Dieci anni, esattamente il tempo di vita che sarebbe rimasto alle spiagge, secondo il pronostico datato 2004 della biologa Marina Pala. Ci sono voluti dieci anni per capire che liberare sulle dune sabbiose ruspe e trattori per rimuovere la poseidonia – ogni anno, ad ogni inizio di stagione – avrebbe finito con lo stravolgere quelle spiagge, rendendole irriconoscibili. Come funzionava quello scempio spacciato per pulizia? Le ruspe facevano irruzione in spiaggia, rimuovevano le alghe e le caricavano sui camion che, a loro volta, buttavano tutto in una discarica abusiva ed invisibile, nascosta dietro le colline di Porto Cervo. Qual era il problema? Il problema era che le benne delle ruspe, oltre alla poseidonia, rimuovevano anche tonnellate di sabbia marina, anch’esse fatalmente destinate alla discarica.
Scoprii la storia nel 2004, la documentai e scrissi molte prime pagine su Il Giornale di Sardegna. Non era facile occuparsene, perché dall’altra parte c’era l’onnipotente Consorzio Costa Smeralda, committente delle cosiddette pulizie: si procedeva tra depistaggi, diffidenze e miserabili tentativi di ridurre il caso ad una strumentalizzazione politica. La Procura di Tempio Pausania aprì un’inchiesta ed un perito stabilì che in quella discarica erano stati depositati diecimila metri cubi di sabbia marina. Granelli sostituiti con sabbia di cava, si seppe più avanti. Di quelle spiagge, insomma, era rimasto ben poco.
Il Consiglio comunale di Arzachena si riunì per discutere il caso e produsse una ferma denuncia: non della violenza sulle spiagge, ma dei danni di immagine causati dall’indagine giornalistica. Secondo gli amministratori del tempo, quegli interventi sui delicati ecosistemi marini erano pienamente legittimi. Ne era convinto, ad esempio, l’assessore all’Ambiente geometra Azara, di professione costruttore edile. Ed anche il capogruppo di quella maggioranza, il geometra Mammarella, di professione dirigente del Consorzio Costa Smeralda. Fu in quella occasione che intervistai la biologa Marina Pala, la cui sentenza fu allarmante: “Alle spiagge della Costa Smeralda restano dieci anni di vita”. Marina Pala suggerì, per la pulizia dai banchi di alghe, uno strumento rivoluzionario: il rastrello. Da usare con interventi manuali e per tempo, non una settimana prima dell’apertura degli alberghi. Andava rimossa non la poseidonia, ma la sottocultura che vede nelle spiagge una merce da tirare a lucido usando detersivi corrosivi, pur di adeguarla a bizzarri canoni estetici. Denunce e moniti non vennero ascoltati, cosicché l’uso di trattori e camion proseguì anche negli anni seguenti.
Sono passati dieci anni e oggi l’amministratore comunale pensa sia venuto il momento di chiudere le spiagge. Dieci anni. Pensiamo a quel che la politica poteva fare e non ha fatto, in tutto questo tempo. Pensiamo a quel che perderebbe la Sardegna, se privata delle sue pregiate spiagge. Ci si poteva pensare prima e non lo si è fatto. Chiediamoci il perché.
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