Ha perso l’ultima battaglia contro lo Stato. Quella per farlo apparire aguzzino. L’immagine del corpo sofferente del vecchio mafioso era pericolosa più dei suoi mille sicari. Era un’immagine che doveva suscitare l’ira della gente contro il mostro che chiedeva di uscire di prigione e spingere lo Stato a scelte dettate più dalla paura social che dalla ragione. “Altro che farlo morire a casa –si leggeva su Facebook -. Saprei io cosa fargli”. Ma lo Stato questa volta ha rifiutato di identificarsi con la politica che non fa più politica, succube dei sondaggi di opinione, e ha razionalmente spiegato perché Riina poteva restare in carcere, prestandogli in detenzione tutte le cure che avrebbe potuto avere in qualsiasi ospedale da uomo libero o semilibero. Lo Stato questa volta ha amministrato la giustizia e non ha fatto vendette. E’ la mafia, l’antistato, a basare il suo potere sulla vendetta. Lo Stato si è mostrato talmente forte nei confronti di un uomo come Riina da valutare persino la possibilità di liberarlo, se necessario, scartando infine questa ipotesi non perché voleva infliggergli l’estrema umiliazione della morte in prigionia ma perché, essendoci la possibilità di assisterlo efficacemente anche da detenuto, sarebbe stato ingiusto e probabilmente anche illegale rimetterlo in libertà. Riina non era il mostro Riina, l’assassino, l’uomo che voleva sostituire la ferocia del suo potere al potere istituzionale, era soltanto un corpo affidato alla custodia dello Stato. Che custodendo quel corpo nella maniera più giusta e dignitosa gli ha inflitto la più bruciante delle sconfitte.
Nato nel 1951, ottobre (bilancia, ma come tutti quelli della bilancia non crede nell'oroscopo). Giornalista dal 1973. Scrive anche altra roba. Ma gratis, quindi non vale.
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