E’ il teatro, bellezza. Anche quando ti prende a pugni sulla coscienza e sottrae alla Giornata della Memoria quell’aspetto cerimoniale che ci fa sentire così buoni. Quella elegante presa di distanze da una minacciosa condivisione di responsabilità, quella memoria istituzionalizzata che sotto la cravatta e il doppiopetto nasconde il pezzetto di mostro che è in ciascuno di noi. Emanuele Floris, regista e autore, nel suo “L’ultima marcia” rappresentato al teatro Verdi di Sassari (Sala dei Concerti), con i suoi giovani e bravi attori, in una trascinante performance fatta di teatro nel teatro e costruita fisicamente in mezzo al pubblico con un abile meccanismo di happening, è riuscito a dare al ricordo del genocidio il vero significato: un’accusa ulcerante contro l’uomo nemico dell’umanità. Floris è un bravo regista, attore e autore. E’ nato artisticamente all’Accademia Silvio D’Amico di Roma negli anni Settanta, il suo maestro era Andrea Camilleri. Poi ha continuato a studiare e lavorare con molti dei grandi del teatro europeo. Ha vinto importanti premi teatrali, tra i quali qui in Sardegna il prestigioso “Cubeddu”. L’anno scorso, in tema di Shoah, rappresentò un testo piuttosto dirompente, “Io & Anne Frank”, dove il tema del male era svolto in un senso globale, non più storicizzato, sottratto ai vincoli di tempo e di luogo. Ma questa “Ultima marcia”, voluta nella sua rassegna dalla cooperativa “Teatro e/o Musica”, è un deciso passo verso una rappresentazione totalizzante dell’inferno, una scelta di rifiuto del palcoscenico quasi a negare la dimensione stessa della rappresentazione per condividere con il pubblico quella dell’avvenimento in corso che deve coinvolgere nella stessa misura personaggi e interpreti (non più distinti) e spettatori. Il punto di partenza dell’idea teatrale è il saggio dello storico israeliano Daniel Blatman “Le marce della morte”, avvenute quando negli ultimi mesi di guerra grande parte del quasi milione di ebrei ancora internati furono costretti a lasciare i campi di concentramento perché gli aguzzini potessero cancellare le tracce del massacro. Migliaia di prigionieri vennero incolonnati in marce di crudeltà persino superiore a quella dei campi, nell’ultimo tentativo di sterminare i non ariani e gli avversari politici prima della sconfitta definitiva. Ma è solo il punto di partenza del lavoro di Floris. Perché “L’ultima marcia”, in realtà, è ancora in corso. E forse lo sarà per sempre. Gli attori sono insieme gli aguzzini e le vittime, basta una simbolica maschera nera per segnare il passaggio di ruolo in uno scambio continuo apparentemente convulso, ma in realtà ordinato in una regia che niente toglie alla piena comprensione e persino alla godibilità dello spettacolo. Colpisce la completezza artistica degli attori, tutti giovanissimi. Marco Demurtas e Stefano Dionisi, che confermano l’ottima prova dell’Anne Frank dello scorso anno, misurati e convincenti anche nelle difficili scene iperrealistiche quale quella di un fascista che interrompe lo spettacolo per leggere un comunicato (la citazione della cronaca dei giorni nostri è scoperta) e dopo il successivo scontro fisico, con le sue accuse volgari di inferiorità fisica e in fondo razziale, mette in crisi i giovani attori-personaggi: “Come potrò guardare in faccia quella ragazza che mi piace dopo che quello mi ha picchiato davanti a lei?”. E’ sempre presente il rischio che certi aberranti valori si insinuino come vermi anche nelle menti più insospettabili. Il fascista è Massimiliano Schiaffino, talmente persuasivo che qualcuno del pubblico ha accennato a reagire, prontamente bloccato da Floris che durante tutta la performance ha interpretato in maniera spesso abilmente estemporanea, viste le continue interazioni con il pubblico ignaro, il ruolo di se stesso, cioè del regista-attore. Marta Chessa, un fisico minuto e nervoso, una recitazione già piena di forma, tesa e incalzante, oltre che se stessa interpreta Dominik, un quattordicenne della Gioventù Hitleriana, realmente esistito, che si rese responsabile di numerose uccisioni. Alessio Pedoni è una sorta di internet-performer che dalla sua postazione vigila sulla diretta Facebook e interrompe la scena anche nei momenti cruciali per dare conto dei risultati dei continui sondaggi di opinione. Sicuro del suo ruolo cede al disprezzo del fascista che lo insulta: “Segaiolo nerd”. E piange. Insomma, una capitolazione della ragione e della libertà, valori dei quali siamo illusoriamente certi, davanti all’avanzare dei mostri neri con la svastica. Che in fondo è quanto nel mondo sembra stia accadendo. Accusa violenta e persino scherzosamente iconoclasta quando gli attori si commuovono nostalgici davanti a una scena della “Vita è bella” di Benigni paragonandolo a un innocuo ricordo di infanzia, come l’albero di Natale. E colpisce nel finale l’attore Marco Demurtas quando, interpretando questa volta se stesso, chiede disperato: “Qual è il finale? Nessuno me l’ha detto!”. Al clavicembalo Matteo Taras, contributi video di Alessio Pedoni, disegno luci di Marcello Cubeddu.
(La foto è di Michela Leo)
Nato nel 1951, ottobre (bilancia, ma come tutti quelli della bilancia non crede nell'oroscopo). Giornalista dal 1973. Scrive anche altra roba. Ma gratis, quindi non vale.
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