Da un po’ di tempo ci si interroga sul rapporto tra la Sardegna e l’Occidente. Ne ha parlato Maurizio Onnis, in particolare, e il dibattito è rimbalzato in vari siti di cultura e politica sarda.
In che misura, dunque, la Sardegna è una regione che, per attitudini geografiche, storiche e culturali, è dentro il sistema di valori occidentali, sia che esso venga visto con una accezione positiva, la democrazia, la libertà di espressione, la libera impresa, sia negativa, il consumismo, l’alienazione, l’imperialismo?
Per occidentali si intendono, in genere, un consesso di nazioni atlantiche con il suo centro d’espansione in Europa e nel Nord-America. La storiografia che riguarda questi paesi segue, in maniera un po’ convenzionale, il filone che dall’antica Grecia porta alla romanizzazione dell’Europa, con il periodo buio delle civiltà romano-barbariche tenuto insieme dal cristianesimo. Poi si passa alle città stato mercantili, all’Umanesimo, al Rinascimento con i suoi banchieri e i suoi commerci.
La Sardegna, naturalmente, c’è dentro in pieno, anche se molti osservatori la definiscono, vuoi per romanticheria, vuoi per esclusione un po’ voluta dai processi culturali, come “fuori dalla storia”.
Questo porre la Sardegna fuori dalla storia ha un suo fascino letterario; spesso nasconde, però, una censura, un offuscamento, l’interruzione di un percorso storico che non è funzionale al sistema di cui stiamo discutendo.
L’Occidente “pervasivo”, infatti, incomincia dopo la conquista delle Americhe e dopo i traffici italici e iberici. Inizia con le compagnie orientali, prima olandesi e poi inglesi. Ci avviamo verso il 1700 e, soprattutto gli inglesi, incominciano ad invadere, anche militarmente, gli stati sovrani dell’Asia. Con la rivoluzione industriale, che parte non a caso dall’Inghilterra per scendere a cascata sull’Europa, si perfezione questa prima globalizzazione terrestre che non risparmia, già da allora, la maggioranza dei popoli della terra, come spiega molto bene Eric Wolf.
Da allora ad oggi l’Occidentalizzazione del mondo, la stessa che possiamo definire globalizzazione, è avanzata senza sosta e si può dire che, ormai, nessun popolo al mondo ne è restata estranea.
E possiamo interpretare, sul piano antropologico, il cosiddetto “scontro di civiltà” con l’Islam, proprio come un tentativo di resistere all’omologazione occidentale.
Ma negli ultimi decenni, a partire dal dopoguerra, grazie allo strapotere economico degli Stati Uniti, la globalizzazione di origine soprattutto nord-americana, è diventata talmente forte da invadere completamente la cultura dei popoli, Italia e Sardegna compresa.
L’accezione “mercantile” o “capitalistica” dell’Occidente, la stessa oggi sottolineata dai teorici della decrescita, come Latouche, ma ben prima di lui dai teorici della Teoria della Dipendenza e del Sistema Mondo, come anche dagli antropologi strutturalisti francesi, pone l’accento sulle deformazioni e sugli eccessi di una cultura dominante e di una società sempre più succube del meccanismo produzione – consumo.
Di fronte ad un miglioramento generale delle condizioni di vita, si assiste alla disintegrazione degli antichi istituti sociali fondati sulla solidarietà e, sul piano antropologico, alla devastazione culturale di interi popoli.
Questo fenomeno è ben rappresentato dalle arti popolari come la musica pop e il cinema, dalla cultura televisiva, dal cambiamento delle abitudini e dall’abbandono delle tradizioni, dal mutamento del costume e dalla trasformazione delle convenzioni sociali. Il mercato è diventato un dominus molto potente che condiziona parecchio la vita delle persone.
I popoli che resistono sono quelli che hanno ottenuto, prima di tutto, una indipendenza economica.
Ovvero quei popoli che si sono posizionati nel “sistema mondo”, per primo teorizzato da Wallerstein, in una posizione centrale, ossia come produttori industriali prima e di servizi, soprattutto commerciali e finanziari, poi. Come spiega Hobsbawn, infatti, un mondo di stati deboli favorisce il trasferimento di potere nei confronti di entità economiche extra-governative, come le cosiddette “multinazionali”, aziende che arrivano ad avere dei bilanci superiori a quelle di stati di media grandezza.
Il Giappone, ad esempio, non è un’area occidentale del sistema mondo ma è “centrale”, perché ha sviluppato una economia talmente forte che gli consente di resistere anche culturalmente all’invadenza occidentale.
Chiaro che le aree più forti, quelle centrali del sistema mondo, a parte le tigri asiatiche, sono quelle dell’Europa centrale, e il Nord America, gli States principalmente e il Canada.
Nell’entrare nel dettaglio di questi paesi dominanti, paesi che raccolgono, con mezzi più o meno leciti (e le tragiche guerre per il petrolio c’è lo ricordano tristemente), dai paesi post-colonizzati, le risorse e le materie prime di cui necessitano, ci si rende conto di una strana anomalia, rappresentata dall’Italia.
Che nel suo complesso l’Italia sia parte centrale del sistema non c’è dubbio, non ha caso ha sempre fatto parte del tavolo dei G7 e G8 e, come potenza militare, pur non essendo una nazione più militarista di altre, risulta all’incirca al 13° posto; alcune sue multinazionali, come l’ENI e il gruppo Fiat, sono tra le prime 30 del mondo.
Ma tra i paesi “sfruttatori” l’Italia differisce perché, nonostante sia stata per lungo tempo la sesta e addirittura, per un periodo, la quinta potenza industrializzata del mondo per PIL (ora è l’ottava), si trova nella singolare situazione di avere, al suo interno, delle aree che appartengono alle più ricche del pianeta (la Pianura Padana, il centro Italia), ed altre che, pur non essendo povere, non si possono considerare parti centrali del sistema mondo, come il meridione e le isole.
Meridione d’Italia e Sardegna, nei vari stati di gradazione intermedia che riguardano il sistema mondo, possiamo definirle come aree “semiperiferiche”.
In pratica, semplificando, il Nord produce industrie, banche e servizi, il Meridione materie prime e agricoltura.
La questione meridionale non è altro che un rapporto, tutto interno ad un sistema italiano, in cui una parte è centrale e l’altra è semiperiferica. Troppo lungo sarebbe in questa sede ragionare sulle motivazioni che hanno portato a questa differenziazione di ruoli, ma certamente ha nuociuto, all’epoca dell’Unità, il predominio della borghesia del nord e la sua nociva alleanza con il ceto baronale del sud. Per fare un esempio, le leggi di protezione dei prodotti industriali del nord Italia, nei primi del ‘900, hanno letteralmente distrutto l’economia agricola del sud, rendendola dipendente, in particolare, con la cerealicoltura.
Anche la Sardegna è entrata dalla porta sbagliata nel sistema mondo, a causa, principalmente, di un rapporto con il Piemonte che si è subito instaurato con un meccanismo di prelievo forzoso delle materie prime dell’isola.
Il lungo feudalesimo e il conseguente sfruttamento, dovuto alla dominazione iberica, aveva impedito lo sviluppo non solo di una economia, ma anche di una esperienza imprenditoriale che avrebbe potuto, successivamente, quando le riforme piemontesi, nell’800, iniziavano a introdurre gli istituti mercantili, costituire quella classe borghese atta a contrastare la voracità degli speculatori e delle “multinazionali” dell’epoca.
Le caratteristiche che distinguono un’area periferica del sistema mondo sono, a grandi linee: una economia basata sullo sfruttamento delle materie prime e il consumo del territorio; la distruzione dell’ambiente, ed in particolare delle foreste, per introdurre economie dipendenti dal mercato; la privatizzazione speculativa dei terreni; le recinzioni; la monocultura delle produzioni, che si specializza solo in alcuni settori.
E’ impressionante notare come queste caratteristiche, purtroppo, calzino perfettamente sulla nostra isola. La Sardegna entra dunque nel sistema mondo dalla parte sbagliata, dalla finestra, come semplice produttrice di materie prime. Un ruolo “coloniale” dalla quale non ne è ancora uscita.
La cosa molto triste è che oggi la Sardegna, dopo aver dato le sue parti migliori, i suoi boschi, le miniere, in parte le coste, dopo aver basato la sua economia sulla monocoltura ovina e su quella petrolchimica, rendendosi schiava del mercato estero, si ritrova con la sua ultima materia prima.
La sua ultima cartuccia.
Come a raschiare il fondo del barile, la sua ultima materia prima è il territorio stesso, buono per le servitù militari, per l’industria pesante e inquinante, per la speculazione energetica, per le varie discariche di rifiuti di varia natura.
Come già prima di me hanno spiegato bene Nicolò Migheli e Salvatore Cubeddu, si prospetta, con il fenomeno del “land grabbing”, tipico dei paesi poveri del terzo mondo, l’acquisto di terreni per trasformare l’isola nell’ennesima monocoltura di cardi e canne, buona per le speculazioni della piattaforma energetica, di modo da risucchiare l’energia elettrica dall’isola senza nessun vantaggio per gli isolani.
Ergo, il punto non è, forse, il grado di occidentalizzazione dell’isola, ma il ruolo che il mercato globale, di matrice occidentale, ha assegnato alla Sardegna.
La Sardegna dunque condivide con l’Occidente la sua storia e non è scevra da quei meccanismi pervasivi della globalizzazione. Tuttavia il piano culturale si trova in grande conflitto con questo paradigma. C’è, al di fuori dalla mitologia resistenziale, una sardità che si oppone a quei meccanismi e rendono, in qualche modo, con accenti e sfumature che si rinvengono qua e là, la Sardegna una terra un po’ più “diversa” che altrove. Perché la Sardegna si ritrova ad aver un enorme tradizione culturale, come si accorse da subito il grande antropologo Cirese appena messo piede per insegnare a Cagliari, e una storia millenaria mai del tutto evidenziata dalla storiografia, come, tra gli altri, notò il grande storico degli Annales Braudel.
Penso all’originalità dell’etnomusicologia sarda, ad esempio, sopravvissuta a chissà quale mondo remoto, oppure alle caratteristiche di un sistema letterario sardo che si avvicinano più alla letteratura meticcia sudamericana che a quella italiana, europea o americana. E anche nel sistema sociale vi sono, forse, ancora, delle “sopravvivenze” di una società segmentarla e solidale, che rendono il pensiero, le relazioni, l’atteggiamento dei sardi portatori di una affascinante originalità. Tutte queste peculiarità sono un patrimonio non solo morale e culturale, ma anche economico, se solo se ne capisse il valore. Perché se non se ne capisce il valore, “l’altra” economia, quella del mercato, occidentale, del sistema mondo, ti soffoca.
Ora, il punto che duole tanto è proprio questo. La Sardegna, così anticlassica, così antica, tale da ritrovarsi, addirittura, agli albori di quella storiografia occidentale con la civiltà nuragica, ben prima di quella greca e di quella etrusca, si trova poi occidentalizzata dalla parte sbagliata, dentro un sistema che, per funzionare, non necessita né di storia né di tradizioni. Lo vediamo nel momento in cui tutto il management italiano preme per fare le prospezioni per il metano nell’oristanese e si disinteressa completamente del giacimento culturale di Mont’e Prama che, economicamente, non rientra nel “sistema mondo”.
Resta il problema di fondo del rapporto con l’Italia. I famosi piani di rinascita, quelli della petrolchimica, oggi, con il senno di poi, paiono quegli aiuti dati al terzo mondo per creare debiti, dipendenza e affari con gli appalti e i finanziamenti.
Tuttavia la riduzione delle problematiche sarde in un contesto oppositivo con l’Italia, pur rappresentando un passaggio fondamentale, non tiene conto di questa complessità globale. Non tiene conto che, ad esempio, in questo momento, chi sta trasformando una porzione del sud Sardegna in una sorta di deposito di scarti di acciaieria è una gigantesca multinazionale Anglo-Svizzera, la stessa che gestisce quei gironi minerari infernali in giro per il mondo, dal Congo alla Bolivia. Per non parlare dell’americana Alcoa.
Ecco, l’isola per riprendersi la sua cultura, la sua storia e la sua lingua, deve innanzitutto fermare questa direzione. Non è facile, perché quando si entra dentro un sistema economico si instaura un meccanismo di dipendenza da quel sistema che ne impedisce la conversione, a patto di grandi sacrifici.
Quindi se i sardi vorranno riappropriarsi della Sardegna, della propria isola, dovranno, come dire, imparare a ragionare un po’ più in grande, e pensare ad un modello di progresso che si fondi sulla Sardegna e sulle sue vocazioni.
La Sardegna deve puntare sulla Sardegna, senza importare da fuori modelli di sviluppo. Sarebbe ora di comprenderlo, senza troppa esaltazione ma senza neppure quel senso di vergogna che spesso ci pervade.
Fiorenzo Caterini, cagliaritano classe '65. Scrittore, antropologo e ambientalista, è studioso di storia, natura e cultura della Sardegna. Ispettore del Corpo Forestale, escursionista e amante degli sport all'aria aperta (è stato più volte campione sardo di triathlon), è contro ogni forma di etnocentrismo e barriera culturale. Ha scritto "Colpi di Scure e Sensi di Colpa", sulla storia del disboscamento della Sardegna, e "La Mano Destra della Storia", sul problema storiografico sardo.
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