L’altra sera ho visto il documentario di Rai2 sulla Moby Prince. Mentre lo guardavo, scambiavo impressioni in chat con un amico che non ricordava bene certi aspetti della vicenda ed è rimasto sconvolto da quella matassa sinora inestricabile di menzogne, omissioni, negligenze e cinismi, sommate le quali non si è ancora arrivati a scoprire come davvero quel disastro sia potuto accadere.Avrei potuto scrivergli tante cose, per dimostrare a mia volta lo sconcerto per il mistero irrisolto.
C’era anche una coppia di miei compaesani, tra le vittime della Moby Prince. Si chiamavano Giovanni e Maria, lui era un consigliere comunale del Partito comunista.Tornavano da Pisa, dove avevano appena fatto visita al figlio maggiore, mio coetaneo, studente universitario: in una delle sequenze del Tg1 del giorno dopo lo riconobbi, piangeva disperatamente e nascondeva il volto tra le mani.Ma Giovanni e Maria sono venuti dopo, nell’elenco dei miei ricordi trasmessi su quella chat.
Perché il primo moto di indignazione, ogni volta che penso alla Moby Prince, lo scatenano le parole di quel giornalista dell’emittenza pubblica, il giorno dopo lo schianto, col traghetto carbonizzato non ancora rimorchiato verso il porto.Disse che probabilmente, tra le cause della strage, vi era la negligenza umana, perché quella sera c’era una importante partita di calcio e forse l’equipaggio si era distratto davanti alla televisione.Non avevo ancora vent’anni, ma ricordo che quell’ipotesi così azzardata mi sembrò già allora inaccettabile, una mancanza di rispetto verso persone morte sul posto di lavoro e sulle cui azioni durante l’emergenza ben poco si poteva sapere, prima che venissero avviate le indagini.Oggi quell’offesa alla memoria mi fa incazzare ancora di più ed è la prima cosa che ho scritto all’amico in chat.
Io ho avuto una breve e modesta carriera da giornalista professionista, perché non possedevo le doti per renderla lunga e prestigiosa.Forse avrei potuto vivacchiare per qualche anno di più accettando incarichi in uffici stampa istituzionali o nei piccoli quotidiani online proliferati con la dittatura del web, ma ad un certo punto fare quel lavoro non mi piaceva proprio più e ho deciso di dedicarmi ad altro, senza davvero mai aver avuto rimpianti, se non quello di aver sottratto anni della mia vita a occupazioni che oggi ritengo più produttive.Se c’era una cosa che non accettavo, per una mia questione di coscienza e forse di decenza, era andare a casa del morto di incidente stradale per chiedere la foto dello scomparso alla famiglia, disperata per la perdita appena avvenuta.
Irrompere nella casa della famiglia affranta per strappare una foto sorridente del morto da qualche album mi è sempre sembrata una mancanza di rispetto che nessuna esigenza professionale avrebbe mai potuto giustificare.Ma peggio ancora è insinuare che 140 persone fossero morte perché alcune di loro erano state distolte dal dovere a causa di una partita di calcio.
Il giornalismo è stato per me un innamoramento giovanile e ancora oggi mi sento molto coinvolto in quella missione, pur non svolgendola più a tempo pieno.Ma ciò non mi impedisce di dire che l’informazione pubblica, col suo bisogno di colpevoli, è una delle responsabili di questo tempo degradato.
Vagando su Youtube ho visto una vecchia puntata di Nemo, una trasmissione condotta da Enrico Lucci su Rai2, qualche anno fa.in questa puntata c’era un servizio intitolato La bella vita di noi vip, che potete rivedere cliccando su questo link: https://youtu.be/ZBE9hOOajcoCon quel suo sguardo allucinato sulla realtà, Lucci raccontava sé stesso nella condizione di vip invitato ad un torneo di tennis (per vip) in un albergo della riviera romagnola, documentando privilegi, regali, benefit e coccole riservati a lui e a una pattuglia di altre sedicenti celebrità, tra cui il senatore Razzi.In cambio, i vip offrivano la disponibilità a inscenare queste partite di tennis, mostrandosi al pubblico adorante, rendendosi disponibili alla firma di autografi e mettendosi in posa per selfie con decine di sconosciuti che sbavavano dietro di loro, orgogliosi di poter poggiare i piedi sullo stesso suolo di certi volti visti solo in televisione.Per l’albergatore, un considerevole ritorno d’immagine amplificato dalle tante rubriche di dimenticabili rotocalchi estivi che di quel torneo si sarebbero occupati.Ne ho visti anche in Costa Smeralda, di tornei per vip basati sulla stessa formula. Le scene erano le stesse, un certo sprezzo per il senso del ridicolo pure.
Quei vip, in fondo, facevano il mestiere di tanti odierni influencer che barattano qualche scatto su Instagram con vitto, alloggio e libero accesso alla piscina.
Quando ancora lavoravo in redazione, molti colleghi si indignavano per la faccia tosta di un inviato che riusciva regolarmente a mangiare gratis in ristoranti molto cari promettendo una recensione al locale.Ci si vergognava di appartenere alla stessa categoria di un giornalista che faceva marchette.So che questi comportamenti vengono ancora oggi considerati perlopiù inaccettabili, ma vedo anche una maggiore propensione a considerarli peccati veniali, a lasciar correre, a far spallucce perché tanto così va il mondo.Perché vi ho parlato della Moby Prince e poi di Enrico Lucci?Perché la rievocazione di certe cronache del 1991 e la trasmissione di Lucci sono il peggio e il meglio del giornalismo cui ho assistito in questa settimana.Solo che Lucci è un comico.
Nato nel 1971 ad Arzachena ed ivi smisuratamente ingrassato negli anni seguenti, figlio di camionista e casalinga. Titoli appesi alle pareti: laurea in Lettere moderne all'Università di Sassari, iscrizione all'albo dei giornalisti professionisti, guida nazionale di mountain bike, presidente della Asd Smeraldabike, direttore della testata Sardegnablogger. È stato redattore di tre diversi quotidiani sardi: dal primo è stato licenziato, gli altri due sono falliti. Nel novembre del 2014 è uscito il suo primo romanzo, "Cosa conta".
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