Dieci amici a cena, in una sera di festa. “Qualcuno vuole ancora della carne?” Si leva un “NO” unanime, accompagnato da gesti eloquenti: nessuno ha più voglia di mangiare, tutti i commensali si sentono nauseati solo a sentir parlare di cibo. “Il dolce?” Altri gesti (a pancia piena è difficile fiatare): chi rinuncia, chi rinvia a dopo la mezzanotte, chi guarda il tiramisù con occhi vogliosi ma si arrende all’evidenza dello stomaco ormai al limite della capienza. Il tavolo è un ingorgo di vassoi, molti dei quali sono ancora colmi delle più svariate pietanze: lasagne, metà di un maialetto praticamente intatto, un timballo di funghi, cinghiale in umido e non mi ricordo cos’altro. Sono rimasti anche degli antipasti. Ma arrendersi, mai! Allora ci si aggiorna al pranzo del giorno dopo, per terminare gli avanzi. Se ancora non bastasse, e sicuramente non basterà, si completerà l’opera a cena. Oppure saranno i maiali a far festa. Alle ultime battute della cena, non so come, si finisce col parlare di razzismo, di intolleranza, di xenofobia. Ed è in quel momento che – davanti ad un tavolo occupato da ogni ben di Dio, col crepitare del fuoco che rischiara e riscalda, con le bottiglie di spumante allineate e pronte per l’esplosione dei tappi – sento dire “però ce ne sono troppi, ai parcheggi danno fastidio e poi non sono più tempi che ci si possa permettere di pensare a loro, ché non ne abbiamo manco per noi”. Silenzio. Abbiamo ormai perso la dimensione esatta della necessità e la cognizione della povertà. Non sappiamo più cosa significhino precisamente, il che è un bene finché non ci impedisce di vedere il bisogno altrui, finché non ci impedisce di realizzare l’evidenza di un tavolo carico di cibo che – noi – non sappiamo come consumare. Il mio sarà anche moralismo da quattro soldi, mi rendo conto. Però, anche se il mondo è cambiato e da bambino non mi è mai mancato nulla, non dimentico di essere cresciuto in una casa dove lasciare il cibo nel piatto era considerato un disonore. E dove mia mamma, se non volevo mangiare, cercava di sviluppare in me i sensi di colpa parlandomi di carestie, di fame del ’43 e dei bambini del Biafra, che la televisione ci mostrava ogni giorno perché da mangiare non ne avevano proprio. Oggi quei bambini dei Biafra ce li abbiamo sotto casa, ma non so se ci siano delle mamme che li indichino ai loro figli per spingerli a mangiare tutta la minestra. (Poi gli avanzi non siamo riusciti a finirli. E il mio amico, alla fine, ha ammesso che in effetti “lu tecchju no credi lu famitu”).
Nato nel 1971 ad Arzachena ed ivi smisuratamente ingrassato negli anni seguenti, figlio di camionista e casalinga. Titoli appesi alle pareti: laurea in Lettere moderne all'Università di Sassari, iscrizione all'albo dei giornalisti professionisti, guida nazionale di mountain bike, presidente della Asd Smeraldabike, direttore della testata Sardegnablogger. È stato redattore di tre diversi quotidiani sardi: dal primo è stato licenziato, gli altri due sono falliti. Nel novembre del 2014 è uscito il suo primo romanzo, "Cosa conta".
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