Sono tornato in Lombardia, ospite del Circolo dei Sardi “La Quercia” di Vimodrone, per la presentazione del mio libro sulla storia del disboscamento della Sardegna. L’ospitalità dei sardi emigrati è nota: non ti accorgi neppure di essere fuori dall’isola. In loro rivedo mia madre, emigrata in Lombardia in gioventù. Rivedo me stesso bambino. Negli anni in cui i sardi emigravano a frotte, mio padre, lombardo innamoratosi di una sarda e della Sardegna, fece la scelta opposta. Non avevo neppure cinque anni quando il traghetto partì definitivamente alla volta dell’isola. Secondo le recenti stime dell’Agenzia per l’Ambiente europea, l’inquinamento dell’aria, nonostante i passi in avanti compiuti dalle tecnologie per l’abbattimento dei fumi, riduce ancora la vita delle persone, soprattutto nei centri industriali e nelle grandi città del vecchio continente. Una delle zone con la più alta incidenza di morti premature dovute alle emissioni inquinanti in atmosfera, secondo gli studi, è la Pianura Padana, come si poteva immaginare, vista l’alta concentrazione di industrie e di popolazione alla quale si aggiunge, come si sa, barriera montuosa delle Alpi che ostacola la circolazione dei venti. La proverbiale “nebbia in Valle Padana”, da un po’ di anni a questa parte, ha un perché di sinistro. E’ un mondo sviluppato, quello lombardo e padano, nel senso che la politica economica dà a questo termine. Stando comodamente seduto sul treno, o in auto, lo sguardo si posa sulla rapida successione di un paesaggio che alterna, senza soluzione di continuità, le sue componenti, che siano essi capannoni industriali, palazzine di periferia, villette a schiera di sobborghi impiegatizi, svincoli stradali, parcheggi, centri direzionali, fabbriche, centri commerciali. Un susseguirsi continuo di elementi di un non luogo che ha perso ogni riferimento visivo e mentale. Per trovare riferimenti paesaggistici, occorre spostarsi dall’asse centrale, un po’ a sud, magari nell’Oltrepò, oppure verso nord, verso i laghi. Ma giusto un po’, con l’alternanza di belle vigne, di orti, qualche naviglio o affluente che scende placido dai monti, qualche paesotto collinare. Rifletto, da sardo, sull’importanza dei luoghi per il sentimento di appartenenza. Sullo sfondo, se si dirada la nebbia, si intravede la sagoma della “catena ininterrotta dei monti”, e a sud, si immagina la presenza del grande fiume. Il resto è un perdersi tra case, strade, e industrie con le loro ciminiere. Forse questo aggrapparsi ad una identità padana irrealistica e oppositiva, aggressiva, xenofoba e persino razzista, è la conseguenza della perdita dei luoghi, dei paesi, della cascine, dei boschi e dei fiumi, con un consumo del suolo che, nonostante la crisi, nella Pianura Padana ma anche altrove, continua senza sosta. Se non si recuperano i luoghi, ci si disorienta. Un circolo dei sardi, per paradosso, è un luogo, un riferimento, ho scoperto, anche per i padani. Un luogo dentro una catena ininterrotta di non luoghi. Dietro il crescente razzismo che non si può definire, ormai, solo padano o leghista, ma più propriamente europeo, dietro la superiorità ostentata di un successo economico dalle tasche piene di soldi e di farmaci, ci sta, forse, il disagio di aver perso i propri luoghi e l’antica solidarietà, che discende, da queste parti, da quella originale struttura abitativa e produttiva costituita dalle cascine, ormai quasi tutte scomparse. Arrivano così “loro”, gli altri. Finalmente una identità, opposta agli “altri”, sporchi brutti e cattivi, può delinearsi. Poi arrivano gli sciacalli, i politici e i fomentatori d’odio, a speculare su questo disagio, a sdoganare il gas cattivo che riempie le pance, e a rendere “politico” un malessere indefinito. Mangiamo cose buone in un agriturismo dell’Oltrepò Pavese, sardi e lombardi messi assieme da Paolo Pulina. C’è il caminetto acceso, si scambiano quattro chiacchiere, si parla della Sardegna, dei circoli, del più e del meno. Fuori è una giornata di nebbia, ma non sempre è così. Capita anche il sole. Poi si rientra verso Milano. Il mio sguardo, abituandosi gradatamente a quella sequenza di sbarramenti verticali dell’orizzonte, ha provato a distinguere dei luoghi, un paese da un altro, una autostrada da una strada, una periferia da un centro. Forse è colpa della velocità. Troppo veloce l’automobile per distinguere i luoghi. Poi, finalmente, ho intravisto un vecchio che zappettava un orto. Era un orto ricavato dentro uno spartitraffico. Avevo visto, e fotografato, l’orto ricavato sul retro, tra il cortile del Circolo di Vimodrone e il Naviglio, in uno spazio strettissimo. Ma sullo spartitraffico, ancora no. La pianura fertile, il suolo umido, ricco di acqua, riemergeva nel gesto di quel vecchietto che si ricavava il suo orticello in mezzo all’ossido di carbonio delle auto, stretto tra due strisce di trafficatissimo asfalto. I luoghi si sono mescolati, la città è dappertutto. Così si diventa stranieri nella propria terra. Solo il vecchio riconosce la sua terra da quella lattuga, da quegli ortaggi che riemergono da sotto l’asfalto e il cemento.
Fiorenzo Caterini, cagliaritano classe '65. Scrittore, antropologo e ambientalista, è studioso di storia, natura e cultura della Sardegna. Ispettore del Corpo Forestale, escursionista e amante degli sport all'aria aperta (è stato più volte campione sardo di triathlon), è contro ogni forma di etnocentrismo e barriera culturale. Ha scritto "Colpi di Scure e Sensi di Colpa", sulla storia del disboscamento della Sardegna, e "La Mano Destra della Storia", sul problema storiografico sardo. Il suo ultimo libro è invece un romanzo a sfondo neuroscientifico, "La notte in fondo al mare".
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