Simona aspettava un bambino e aveva 33 anni. A Dacca ci viveva da un anno, per lavoro. Sul ramo tessile, così come Vincenzo D’allestro che si occupava di una fabbrica tessile. Adele Puglisi era invece una viaggiatrice, si trovava a Dacca per salutare un’amica. La sua casa era il mondo, quel mondo che adesso si è terribilmente ristretto. Cristian Rossi era un imprenditore nell’abbigliamento, di Udine. Anche Marco Tondat era a Dacca per lavoro perché il nord est del nostro paese era troppo stretto. Lavorava da un anno in un’azienda di abbigliamento. Sarebbe dovuto rientrare in Italia oggi. Quando si dice il destino.
Claudio Cappelli aveva 43 anni, lui era titolare di un’azienda di abbigliamento. Maria Riboli, 34 anni, anche lei lavorava nello stesso settore. Nadia Benedetti aveva la sua industria con cento operai. Uccisi. Uccisi per un Dio che non ha mai parlato e neppure ha mai chiesto sangue di vite umane. Uccisi come bestie al macello. Non è un modo di dire. E’ la realtà. Atroce e difficile da raccontare anche per chi, a volte per passione, scrive storie disseminate di delitti. Questo non è un delitto. E’ qualcosa di diverso. Le vittime sono state tutte sgozzate perché, secondo i carnefici, costituisce un atto purificatore. Soprattutto nel periodo del Ramadan. Le vittime – pare – siano state fatte sdraiare sul fianco sinistro per avere la testa rivolta verso la qibla, ovvero verso la direzione della Mecca, e così hanno subito il taglio della gola. Questa è l’atrocità che accompagna questi morti. Lavoratori, emigrati per cercare e offrire lavoro. Molti partiti da quel florido Nord-est italiano, lastricato ormai di capannoni vuoti, segno di una crisi indelebile. Cercavano soluzioni lontano, provare a quadrare i conti con ditte che in Italia non riuscivano ad ingranare. Uccisi come il montone nella festa dell’id al Kebir, uccisi “con le proprie mani”, così come suggeriscono i testi sacri. Però quei testi parlano di animali e non di uomini. Così l’orrore ha bussato anche alla nostra porta, con una lentezza davvero strana. Non ci siamo subito gettati a gridare “je suis Dacca”, non abbiamo raccolto isterismi immediati. Come se tutto questo si possa mettere ormai nel conto. E’ stato vissuto tutto con incredibile silenzio e con compassata commozione. Non è una notizia che può passare sotto-traccia eppure, a guardare i media, internet e i commenti vari, c’era più animosità per la Brexit che per questa strage maledetta. Erano italiani, emigrati in altri paesi per lavoro, per creare opportunità. Molti di noi, magari, hanno acquistato una maglietta in un centro commerciale della propria città “made in Bangladesh”. Ecco, quella t-shirt, quei pantaloni, quelle scarpette, avevano anche i volti di questi emigrati italiani.
Nato a Oristano. padre gallurese, madre loguderse, ha vissuto ad Alghero, sposato a Castelsardo e vive a Cagliari. Praticamente un sardo DOC. Scrive romanzi, canta, legge, pittura, pasticcia e ascolta. Per colpa del suo mestiere scommette sugli ultimi (detenuti, soprattutto) e qualche volta ci azzecca. Continua a costruire grandi progetti che non si concretizzano perché quando arriva davanti al mare si ferma. Per osservarlo ed amarlo.
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