Ci siamo rincontrati, Davide ed io, l’uomo che ho sposato e che mi ha fatto partorire due figlie. Ci siamo rincontrati -dicevo- in un modo particolare, qualcuno lo definirebbe “strano”. Per mia madre e mio padre, invece, per “un deliberato disegno del destino”. Uscivamo dal parcheggio del centro commerciale. Entrambi marcia indietro. Era la vigilia di Natale.
La mia auto era stracolma di pacchi, regali destinati ad essere messi sotto l’albero, scartati da qualcuno a me sconosciuto, e vivande che, qualcuno a me sconosciuto, avrebbe mangiato. Avrei addobbato l’albero, avrei messo i regali intorno allo stesso, avrei cucinato, come faceva mia madre quando ancora vivevo coi miei, e poi sarei uscita per portare regali e vivande alla mensa dei poveri.
Mi chiamo Daniela, ho trent’anni.
Conosco Davide da quando eravamo bambini. Siamo nati a distanza di tre mesi l’uno dall’altro. Lui è più giovane di me di tre mesi. Siamo stati coinquilini fino a vent’anni. Un pianerottolo separava le nostre vite, ma solo per qualche ora al giorno, quelle del sonno notturno. Un pianerottolo… Per il resto, ho sempre pensato, fossimo uguali. O almeno simili. Stessi giochi. Stesso carattere, apparentemente remissivo. Stessa scuola, lo scientifico. Stesso sport, il tennis. Stessa musica. Stesso modo di vestire da adolescenti.
Ci siamo persi di vista in un giorno qualunque, quando mio padre, maresciallo dei carabinieri, venne trasferito per lavoro in un paesino di montagna a sessanta chilometri di distanza. Davide è rimasto coi suoi, o meglio, tutti… Davide, le sue due sorelle e la madre sono rimasti con il padre, in città. Tutto ciò che accadeva nella famiglia di Davide rispondeva “per un deliberato disegno del destino” ai desideri ed alle aspirazione del padre. Avrebbero potuto trasferirsi con noi. Gli era stato offerto il comando della caserma dove era stato destinato mio padre. Rifiutò. Ne avrebbe risentito la sua carriera. Dopo qualche tempo è diventato generale. La madre avrebbe potuto insegnare latino al classico, ma il generale sosteneva che non sarebbe stato dignitoso. cosa avrebbero pensato i suoi comilitoni, un generale può vivere alla grande del suo. Senza che la moglie lavori. Perché, il padre di Davide, ragionava da generale, anche prima di diventarlo. La moglie deve stare a casa e vivere da gran signora. Ora passa il tempo a preparare manicaretti per il generale e per i suoi colleghi ufficiali, ospiti a pranzo una volta al mese, secondo quella che -per il padre di Davide- sarebbe una antica tradizione di famiglia, comprare scarpe che mette una volta sola per le parate militari alle quali non può mancare. Il tempo che le rimane lo passa distrattamente davanti alla tv. Lavora a maglia un golf che il marito non indosserà mai e -risvegliando ad intermittenza la propria attenzione- risponde meccanicamente alle domande di storia, letteratura e geografia proposte su tutti i canali televisivi da sedicenti esperti. Ma che ve lo racconto a fare? Che vi importa della madre di Davide, nel frattempo diventata anche mia suocera? Per me è stato facile chiamarla “mamma” dopo il matrimonio (come ha preteso il generale), perché in sostanza per me “mamma” lo è sempre stata. La mamma oltre il pianerottolo, sino a vent’anni. Quando eravamo piccoli, io e Davide, avevamo entrambi un caschetto biondo (come Caterina Caselli, dicevano le nostre madri) e all’asilo ci confondevano e, se non fosse stato per il fiocco di colore diverso, ci avrebbero confuso anche alle elementari. Oltre il caschetto biondo, avevamo le stesse movenze, lo stesso modo di camminare e -nelle partitelle in cortile- calciavamo entrambi di sinistro. Eravamo mancini. Siamo ancora mancini. Per tanto tempo abbiamo giocato in coppia il doppio misto nella squadra del liceo. Calzoncini bianchi, maglietta rosa, caschetto biondo, un rovescio mancino invidiabile, entrambi. Ci confondevano anche i nostri compagni di scuola ed i loro genitori che assistevano ai nostri tornei. Ci confondevamo anche noi quando qualcuno ci chiamava. “Dani, vieni qui…”, “Davi, vieni qui…”; ci voltavamo entrambi. La forza delle assonanze… “Davi, vieni a fare merenda…” gridava la madre di Davide e correvo anch’io. Talvolta pensando che avesse chiamato me, tal’atra fingendo di aver capito male. E lui faceva uguale, quando a chiamare era mia madre, che confezionava dei biscotti di pasta frolla di cui andava ghiotto. È stato così sino all’età di vent’anni. Finché non ci siamo persi di vista in un giorno grigio, un giorno qualunque d’autunno. Non ricordo nulla di quel giorno. Meglio, non ricordo il nostro comportamento, non ricordo come (e se) ci siamo salutati, non ricordo se sia rimasto sulla porta fino a che la macchina di mio padre non è scomparsa all’orizzonte. Il mio orizzonte era in movimento. Non è un ricordo, lo so per esperienza. Non ricordo nessun colore d’autunno. Quella sera le varie tonalità di rosso, arancione, giallo, che ti regala l’autunno con le sue foglie ed i suoi tramonti quando è di buonumore, avevano disertato. Non avevano ritenuto opportuno presentarsi per un saluto e lasciarmi un ricordo. Non avevano ritenuto opportuno presentarsi per un saluto e lasciarmi un ricordo. Forse il cielo era grigio, forse piovigginava, forse era il colore del distacco dal pianerottolo della mia adolescenza. Ricordo il grigio della nuca di mio padre, alla guida davanti a me, la testa grigia di mia madre al suo fianco, il fumo delle ciminiere confuso, all’orizzonte, con le nuvole bigie. Il bianco sporco ed il nero della prima neve che si scioglieva sul ciglio della strada. L’asfalto che correva in direzione opposta alla nostra e con lui il verde sporco dei cipressi senza stagioni, messi a guardia dei defunti della mia città, di quella che era stata fino ad allora la mia città. Non ricordo di aver provato il desiderio di tornarci, un giorno. Ho dormito per gran parte del viaggio. Non ricordo di aver provato emozioni all’arrivo. Non ricordo i colori del viale d’ingresso nel paese nel quale pensavo avrei vissuto a lungo. Non ricordo se i lampioni fossero accesi… avrebbero dovuto esserlo… era notte. Non ricordo il momento in cui ho varcato la soglia della mia nuova casa. Non ricordo di aver aiutato i miei a scaricare i bagagli. Forse sono andata a proseguire, nel nuovo letto, il sonno iniziato in viaggio e non interrotto all’arrivo. Ricordo solo che, alzandomi il giorno dopo, ho sbagliato direzione cercando il bagno nel nuovo andito, buio e cupo.Buio e cupo,opprimente, ricordo di aver pensato. Scusate. Mi rendo conto solo ora che sto tergiversando. Passeggio alla cieca nei sentieri tortuosi dei miei ricordi, pochi e confusi ma, mi rendo conto di farlo per sviare, per non arrivare al dunque, come si dice. Percepisco, a pensarci bene, che, forse, al dunque non ci voglio arrivare,ho paura di arrivarci. Eppure sono venuta qui dopo aver deciso, tra mille dubbi e mille perplessità di raccontarlo a qualcuno. Ho deciso qualche ora fa di raccontarlo a qualcuno. Che cosa? Vi chiederete. Abbiate pazienza, ci arrivo! Sto cercando dentro di me il modo ed il tempo di farlo, di liberarmi di questo gravoso fardello, di condividerlo con qualcuno, gravoso e opprimente, cupo, come l’andito della mia nuova casa.
Ecco! Ho trovato! Farò in questo modo: comincerò dal momento in cui ci siamo rincontrati dopo cinque anni. Non so dirvi se siano stati lunghi… dal momento in cui ci siamo rincontrati -come dicevo- Davide ed io.
Uscivamo dal parcheggio del centro commerciale. Entrambi marcia indietro. Ho sempre avuto problemi a stimare le distanze tra la mia auto e gli ostacoli mediante lo specchietto retrovisore, ho sempre preferito manovrare voltandomi all’indietro per vedere attraverso il lunotto posteriore. Modalità di guida impossibile in quel frangente: il sedile posteriore era stracolmo di pacchi impedendomi di guardare oltre. Ho percepito l’ostacolo solo nel momento in cui ho sentito il colpo del paraurti. Ho spento il motore. Aperto lo sportello. Appena fuori dalla macchina ho capito di aver urtato una “Punto” grigio metallizzato in tutto e per tutto uguale alla mia e -contemporaneamente- ho sentito urlare “Dove cazzo vai, stronza?” Avrei riconosciuto quella voce -seppur alterata dalla stizza- tra mille. Ho sollevato lo sguardo e ho visto i suoi occhi. E lui i miei. “Dani!”, “Davi!”. Le due esclamazioni si sono sovrapposte, quasi un’eco. “Scusa, è colpa mia” ho sussurrato subito dopo, come facevo sempre. Davide, anche quella volta ha esibito la sua proverbiale generosità incassando la mia autoaccusa ben sapendo che entrambe le macchine erano uscite contemporaneamente dal parcheggio e che il botto era avvenuto in mezzo alla strada. “Non è niente -ha replicato- ci siamo appena toccati. Il paraurti della mia macchina non si è nemmeno scalfito”. Dopo un istante di imbarazzato silenzio, ci siamo nuovamente guardati negli occhi. Ci siamo abbracciati e baciati a lungo senza preamboli. Ci hanno riportato alla realtà, qualche minuto dopo, i clacson delle automobili che -bloccate dalle nostre- non riuscivano ad uscire dal parcheggio per riportare a casa i propri frettolosi passeggeri. Davide ed io quella sera abbiamo dimenticato i nostri impegni. Risaliti in macchina, ci siamo ritrovati -senza esserci messi d’accordo- in casa mia a ricordare il pianerottolo che avevamo condiviso sino a vent’anni. Il tempo di una cena frugale e di una bottiglia di vino sono stati sufficienti a raccontare l’un l’altro i cinque anni passati senza vederci. Io mi ero laureata con 110 e lode in scienza delle finanze ed insegnavo diritto nel locale istituto commerciale. Vivevo da sola in un mono locale a pochi isolati dalla casa dei miei genitori. Lui, dopo la mia partenza, aveva abbandonato gli studi dopo aver trovato un lavoro come rappresentante di commercio. Girava tutta la provincia. Quella sera si trovava lì per concludere un ordine con l’ufficio acquisti del centro commerciale. Forse, alla luce di ciò che è accaduto, sarebbe più giusto dire dove ci siamo “scontrati”. Siamo finiti a letto e ci siamo rimasti per tre giorni. Alla mattina del quarto -dopo aver deciso di sposarci- mi disse di voler tornare a casa per “riordinare le idee”. Sei mesi dopo, tra le lacrime, la gioia dei nostri genitori e le urla festose ed i cori dei nostri parenti gozzoviglianti, siamo diventati moglie e marito e siamo andati a vivere insieme.
Le nostre vite sono cambiate.
Nei cinque anni di separazione ci eravamo costruiti le nostre identità, le nostre individualità, le nostre professioni, le cerchie di amici. Il matrimonio affrettato (lo definisco così solo ora) ci ha fatto tornare al nostro pianerottolo, quasi avessimo ancora il caschetto alla Caterina Caselli. Eravamo tornati ad essere dipendenti l’una dall’altro, come quando facevamo i tornei di doppio misto. Come allora, Davide ha incominciato ben presto ad accusarmi di sbagliare troppo spesso la battuta.
Per esempio una sera, tornavo da scuola (facevo lezione solo la mattina, ma una volta al mese il preside organizzava la riunione del collegio dei docenti “per fare il punto” diceva). Mi sono imbattuta in un vecchio compagno del liceo. Mario, il buffone della classe. Ci faceva sempre ridere. Quando voleva evitare di essere interrogato era capace di memorabili performance che -oltre alla classe- coinvolgevano tutto il corpo docente. Sì, sì… ma cosa ve lo racconto a fare? Continuo a girare intorno. Dicevo di aver incontrato Mario. Dopo gli abituali convenevoli, siamo finiti in un bar a prendere un gelato. Racconta uno, ricorda l’altro, abbiamo trascorso un’ora piacevole. Il tempo è volato tra ricordi e risate. “Ciao, ciao, chiamami una di queste sere, andiamo a cena insieme”. Ho aperto la porta di casa. Davide mi aspettava furente piantato, braccia conserte, davanti alla porta. Senza proferir parola mi ha mollato un ceffone. La mia guancia ha confermato che il suo sinistro era ancora forte, come quando giocavamo a tennis. Cadendo ho urtato il vaso di cristallo che ci aveva regalato mia madrina per il matrimonio. Ricordo ancora i frantumi sul pavimento. Si è inchinato amorevole verso di me e, porgendomi la mano per rialzarmi, con un sibilo mi ha chiesto “dove sei stata per tutto questo tempo?”. Spiazzata. Confusa. Sorpresa. Non ho risposto. Sono corsa verso il bagno in preda ai conati di vomito. Non ho fatto in tempo ad arrivare. Il cavallo che galoppava impazzito dentro di me alla ricerca di un filo logico che unisse pugno e premure di Davide, è esploso improvvisamente saltando fuori come un liquido verdastro ed amaro per accasciarsi esanime sul tappeto persiano, regalo del generale. Ho raggiunto il bagno e mi ci sono meccanicamente chiusa dentro. Per un tempo che ancora oggi non so quantificare ho fissato, senza riconoscerla, la mia immagine riflessa nello specchio. Il filo di sangue che colava dalle labbra macchiava la mia camicetta bianca. Ho aperto l’acqua fredda e ho infilato la testa sotto il rubinetto. Non riuscivo a spiegarmi perché il sangue di quelle labbra nello specchio defluisse insieme all’acqua dei miei capelli. Mi sono seduta sulla tazza senza ragione. Il tempo era fermo. Le mie orecchie hanno sentito Davide bussare e dire “stai bene?”. Le mie orecchie hanno sentito la domanda. Io no! Io non ero più in quella casa. Ma non ricordo nemmeno di essere stata in qualche altro luogo. Semplicemente non c’ero. Il bussare si è fatto sempre più insistente e violento. “Esci Daniela, per favore!” ha urlato, voce rauca, irriconoscibile, quasi fosse di un altro uomo. “Lo sai che prima o poi uscirai e, allora, sarà peggio!”, come facevano il generale e mia madre quando da bambini cercavamo di sfuggire alla punizione per qualche malefatta. “Esci, t’ho detto, troia!”, con un urlo sovrumano. Ho percepito in Davide -tornando lentamente in me- una soddisfazione particolare, amara, nel pronunciare quell’appellativo. Come se dopo la parola troia avesse anche pensato “finalmente gliel’ho detto”. Con quella parola ha passato il confine. Una spallata alla porta ed è entrato. Ho sollevato lo sguardo verso il suo volto, ma guardavo oltre. Di nuovo tenero e premuroso, con voce quasi carezzevole “Dove sei stata? lo sai che mi preoccupo”. “Ho incontrato Mario” ho risposto con un filo di voce. Solo in quel momento ho provato il dolore alle labbra. “Mario chi?” e giù un’altra sberla che mi ha fatto cadere sul pavimento. Sedendomi in posizione fetale con le gambe tenute tra le braccia e con la voce sempre più flebile “Ma sì, Mario Binaghi, te l’ho ricordi anche tu, al liceo ci faceva morire dalle risate con le sue buffonate… ”. “Ah sì… Mario, e ti ha fatto divertire?” con tono sarcastico. “E perché non hai chiamato per avvertire che avresti fatto tardi?” accusatorio. “T’ho chiamato tre volte, sempre occupato”, ho replicato. “Ero al telefono con la direzione centrale… perché io… io lavoro!”. In tono conclusivo. Avrei dovuto tacere. Si sarebbe reso conto che non era stata colpa mia. Invece “Scusami” ho sussurrato. “Scusami un cazzo!” ha urlato mollandomi un calcio nelle costole. “Scusami” ho ripetuto. “Prepara da mangiare, che domani devo partire all’alba e falla finita con queste scuse ridicole! Mario… Mario un cazzo!”. Avrei voluto alzarmi ed andare in cucina. Sapevo che era l’unico modo per placare la furia che lo attraversava a ondate, incomprensibile ed ingiustificata. Invece, il mio corpo ha rifiutato di obbedirmi e non si è mosso. Mi ha guardato per qualche secondo incredulo. Mi ha sollevata di peso. “Vieni con me, che ora ti faccio divertire io, brutta stronza!”. Mi ha portata in camera e mi ha scaraventata sul letto. Mi ha stracciato i vestiti da dosso. È rimasto per qualche minuto a guardarmi nuda ed intirizzita, come se mi vedesse per la prima volta. A sua volta si è spogliato con la stessa violenza, lanciando gli indumenti per tutta la stanza. Mi ha presa in silenzio. Un silenzio violento. “No!” è stata la mia unica parola, senza un lamento nonostante le fitte al costato. Non ricordo altro se non il suo affannoso respiro. Per il tempo che gli è servito, ho avuto la confusa sensazione di sognare di essere finita sotto un bue. Si è fatto da parte. Si è infilato sotto le coperte. Si è rifugiato nel sonno dei giusti. Io, ho finito la notte al pronto soccorso dopo aver raccontato ai medici di essere caduta per le scale.
Quella notte abbiamo concepito per la prima volta. Michela. Sono contenta che sia una bambina.
Non sono rientrata a casa. Uscita dall’ospedale sono andata verso casa dei miei. Sapevo di non trovare mio padre. Avrebbe indagato. Non me la sentivo di rispondere a domande precise. “Come hai fatto? Sei scivolata? Le scale erano bagnate? Che ora era? Ti ho sempre detto che quelle scarpe sono pericolose!”. Non sarei stata in grado di sostenere il terzo grado del maresciallo, come quando ero bambina. Desideravo soltanto infilare la testa tra le braccia di mia madre e farmi coccolare. Mi illudevo che sarei riuscita finalmente a piangere e raccontarle tutto. Abitavano al terzo piano. Percorrendo la prima rampa di scale ho incominciato a cercare le parole, il modo, ho provato ad immaginare il racconto. Salivo lentamente. Ad ogni ipotesi che facevo, corrispondeva nei miei pensieri una precisa risposta di mia madre. “Ma chi, Davide? Non è possibile” mi avrebbe risposto. E se avessi insistito “Non ci credo” avrebbe replicato. “Se fosse vero, significherebbe che gliene hai dato motivo. È da un po’ di tempo che ti vedo distratta, figlia mia! Cosa stai combinando?”, “Mamma, sono solo un po’ stanca!” così mi sarei giustificata. “Ma questo non spiega quello che mi ha fatto” avrei aggiunto, sollevando la camicetta per mostrarle l’ematoma al costato. Nella migliore delle ipotesi mi avrebbe suggerito “Devi coccolarlo. Non devi dargli motivi di dubbio. Devi avere pazienza, figlia mia… anche tuo padre da giovane… lasciamo stare… È tuo marito, devi avere pazienza”. Arrivata al pianerottolo, avevo desistito. Ho suonato il campanello e, quando mi ha aperto la porta, “Ciao mamma. Sono caduta per le scale, mi sono fratturata due costole. Mi hanno messo tre punti al labbro superiore. Davide è fuori per lavoro, posso stare qui per qualche giorno?” ho detto mentendo tutto d’un fiato.
Tante altre volte in questi anni ho passato la notte al pronto soccorso ed ho fatto le scale di casa, sperando che non ci fosse mio padre e con il desiderio di farmi coccolare da mia madre. È perfettamente inutile che vi racconti i particolari. Gli episodi si sovrappongono. Non sono in grado neanche io di distinguerli tra loro e distribuirli con esattezza nel tempo. I motivi della furia di Davide? Immaginateli pure. Non ce n’è uno degno di nota o plausibile. Lui ha sempre detto di amarmi e, forse, mi ama davvero.
Abbiamo concepito così per la seconda volta. Susanna. Per fortuna, un’altra bambina.
Tante altre volte ho salito i gradini di casa dei miei proponendomi di raccontare tutto a mia madre. Qualche volta ho anche pensato di dire a mia madre che lo avrei denunciato. Mia madre mi avrebbe sicuramente risposto “Devi coccolarlo. Non devi dargli motivi di avere dubbi… Ma sei matta? Te lo immagini lo scandalo. Non vorrai rovinare un bravo ragazzo come Davide per una stupidaggine! Ed alle tue figlie non pensi?”. E così, con questi pensieri, arrivata davanti al portoncino dell’appartamento ho sempre desistito e, per decine di volte, ho mentito a mia madre. Spesso mi son detta “forse sarebbe più facile se avessi delle sorelle…” Ma, forse, era un modo per mentire a me stessa. Ogni volta -passato qualche giorno dai miei- sono tornata a casa. Davide mi ha sempre fatto trovare un mazzo di rose rosse ed un biglietto elegante vergato con pensieri d’amore di una dolcezza infinita. Ed ogni volta ho pensato “mi ama” e mi son messa a cercare per lui un alibi, che non ho mai trovato, ed uno per me stessa.
Fino a ieri.
Alcuni giorni fa rientravo da una delle riunioni serali organizzata dal preside per fare il punto. Pioveva a dirotto. Procedevo a passo d’uomo sulla mia Punto, ormai vecchia. Ho bucato. Ho accostato. Ho chiamato Davide perché mi venisse a prendere. Occupato. Ho atteso qualche minuto. Ancora occupato. Ho atteso che spiovesse e sono uscita dall’auto per chiedere aiuto. Ho provato a chiamare di nuovo. Ancora occupato. È passato Mario. Si è fermato. “Bisogno di una mano, signora?” con il suo solito sorriso solare e canzonatorio. “Si grazie, ho bucato”. Riconoscendo la sua voce allegra, “Ciao” ho detto. “Ciao” ha risposto. Vista la situazione “Va bene -ha detto- meriteresti di essere lasciata qui a fare la doccia piovana, visto che son cinque anni che aspetto una telefonata. Mi avevi promesso di chiamarmi per una rimpatriata. E… hai cambiato numero per non farti rintracciare?”. “No… è che ho perso… ho cambiato il telefono” mi sono giustificata. “Va bene va bene… ci voglio credere, ma sorridi”. “Cosa si fa? Davide non risponde e non saprei chi altro chiamare”.. “Chiamiamo il carro attrezzi, visto che nel portabagagli non hai la ruota di scorta… chiamiamo il carro attrezzi ed a casa ti ci porto io, se mi spieghi cosa significa la malinconia che ti leggo negli occhi. Non credo si tratti solo della gomma bucata…”.. “No… no… sono solo un po’ stanca” ho mentito arrossendo. “Va bene, va bene… ci voglio credere…”.
Partito il carro attrezzi con la mia auto a bordo, Mario mi ha fatto salire in macchina. Chiacchierando del più e del meno siamo arrivati sotto casa e ci siamo salutati con l’impegno di sentirci presto, impegno che -sapevamo entrambi- non avremo rispettato. Il resto lo sapete o lo potete immaginare. Ho aperto la porta di casa sperando di non trovarlo. Invece c’era e -come sempre accadeva in questi casi- ho finito la notte al pronto soccorso dopo avergli chiesto scusa. Per l’ultima volta.
Ieri sono uscita dall’ospedale. Il medico che mi ha visitato prima di dimettermi, una signora gentile di circa sessant’anni, prima del commiato mi si è rivolta con un sorriso gentile, ma determinato “Ho visto la sua cartella clinica, signora. Lei cade troppo spesso. Deve farsi controllare, ci deve essere un disturbo dell’equilibrio. indispensabile individuarne le cause e rimuoverle al più presto” e -allungando la mano per stringere la mia- mi ha infilato tra le ditta un biglietto da visita. Arrivata in macchina ho letto il biglietto. Avvocatessa Maria De Santis – familiarista – Via Tal Dei Tali, 25. Ho messo in moto e, invece di avviarmi mestamente verso casa di mia madre, sono corsa alla ricerca di quell’indirizzo. Due ore di colloquio leggero. Come se parlassimo d’altri. È riuscita a farmi raccontare tutto. Le ho raccontato tutto, seppure in maniera confusa. Sovrapponendo fatti e tempi senza logica alcuna. Ma lei credo abbia capito. Ed ora… forse… so cosa fare. Forse… so come fare. Salita in macchina ho chiamato Davide “Non aspettarmi… non rientro… risparmia le rose!” gli ho sparato nelle orecchie subito dopo il suo “pronto” annoiato.
Spento il cellulare, messa la sicura allo sportello, mi son addormentata in macchina. Stamane, appena sveglia, son corsa qui per raccontarlo a qualcuno.
Ho parcheggiato con una sola manovra, utilizzando lo specchietto retrovisore. Forse ho finalmente imparato a guardarmi le spalle senza voltarmi all’indietro.
Nato nel 1971 ad Arzachena ed ivi smisuratamente ingrassato negli anni seguenti, figlio di camionista e casalinga. Titoli appesi alle pareti: laurea in Lettere moderne all'Università di Sassari, iscrizione all'albo dei giornalisti professionisti, guida nazionale di mountain bike, presidente della Asd Smeraldabike, direttore della testata Sardegnablogger. È stato redattore di tre diversi quotidiani sardi: dal primo è stato licenziato, gli altri due sono falliti. Nel novembre del 2014 è uscito il suo primo e-book "Cosa conta".
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