Apparentemente potrebbe essere una notizia molto lontana e quasi incomprensibile ma con una piccola lente di ingrandimento ci rendiamo conto che, invece, ci riguarda moltissimo. Negli Stati Uniti, il Presidente Obama lancia una crociata contro le “carceri private” in quanto più pericolose, più disumane e più costose di quelle federali. In Italia le carceri private non sono previste e in Europa c’è qualche sterile progetto (Inghilterra soprattutto) che, però, non ha dato grandissimi risultati. Perché allora la notizia ci riguarda da vicino? Per due motivi essenziali: il primo legato al mito della privatizzazione, soluzione sempre agognata dai liberali di tutti i continenti e il secondo per il problema della gestione dei detenuti e del loro ipotetico reinserimento nel tessuto sociale. Gli americani sono gente spiccia. Non amano perdere molto tempo in disquisizioni filosofiche. Nel 1980 pensarono di privatizzare in maniera massiccia il sistema penitenziario. Si era in pieno edonismo reganiano e la popolazione carceraria era esplosa dell’800%. Non avevano tenuto conto però che la privatizzazione avrebbe camminato all’interno dei binari del business. Un privato deve necessariamente trarre profitto dal servizio che offre. Le carceri americane divennero pertanto luoghi di violenza e sopraffazione dove, oltre a calpestare la dignità degli individui, questi erano anche malnutriti. Chiaramente le parentesi Bush padre e figlio non contribuirono al dibattito sulla violenza all’interno dei penitenziari e solo nel 2013, prima timidamente poi sempre con più forza e autorevolezza, una non-profit pubblica – la Marshall Project – ha cominciato ad occuparsi del problema, costruendo degli scoop inseriti sul proprio sito e offerti anche a dei quotidiani. Si è scoperto così che le carceri private americane sono luoghi di violenza gratuita, corruzione tra agenti e detenuti, dove regna il risparmio totale e non esistono piani di recupero e di formazione per i detenuti. Obama, molto attento alla diaspora tra bianchi e neri, ha cominciato ad occuparsene in maniera seria dopo aver conosciuto la storia di un detenuto morto per soffocamento mentre veniva trasportato in carcere all’interno di un furgone cellulare, praticamente senza nessun ricambio di aria. Quel detenuto però non era un “negro” ma un uomo bianco di mezza età reo di aver pagato in ritardo gli alimenti alla ex moglie. Dalle nostre parti non sarebbe mai potuto accadere: il carcere per questo tipo di reati in Italia – ma anche nel resto d’Europa – non è assolutamente previsto e i cellulari a disposizione per il trasporto dei detenuti sono mezzi assolutamente idonei sotto il profilo della vivibilità. Si scopre, dunque, che il paese “esportatore di democrazia” in realtà ha molte cose da imparare dal vecchio e bistrattato vecchio continente. Almeno sullo stato dei penitenziari la vecchia Europa sembra essere più attenta. Questo non significa che anche dalle nostre parti non vi siano problemi. Il sistema penitenziario italiano ha sicuramente bisogno di aggiustamenti, di ripensamenti. Si regge ancora su un ordinamento penitenziario del 1975, ordinamento identico anche per i minorenni e, chiaramente, sarebbe necessaria una rivisitazione anche in tempi rapidi. La notizia della marcia indietro americana però ci interessa moltissimo perché da più parti e sempre più frequentemente si pensava alla “privatizzazione” delle carceri anche in Italia. Era un idea della destra liberale e anche di molti settori di un centro-sinistra pallido. Sarebbe il caso di lasciar perdere. Le carceri italiane di tutto hanno bisogno tranne che di una privatizzazione che porterebbe ad un “trattamento” diversificato e assolutamente contrario allo spirito dell’articolo 27 della Costituzione. Obama ha scelto una buona strada. Lo sforzo, dalle nostre parti dovrebbe essere indirizzato ad un cambiamento vero, sostanziale, legato all’inclusione e non all’esclusione degli individui che hanno comunque sbagliato ma meritano un’altra opportunità. Ne saremo capaci?
Nato a Oristano. padre gallurese, madre loguderse, ha vissuto ad Alghero, sposato a Castelsardo e vive a Cagliari. Praticamente un sardo DOC. Scrive romanzi, canta, legge, pittura, pasticcia e ascolta. Per colpa del suo mestiere scommette sugli ultimi (detenuti, soprattutto) e qualche volta ci azzecca. Continua a costruire grandi progetti che non si concretizzano perché quando arriva davanti al mare si ferma. Per osservarlo ed amarlo.
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