Su Totò Riina dobbiamo chiarire alcune cose e, soprattutto, provare a tracciare un percorso che non sia necessariamente e solamente emotivo. Lo dico perché ieri un mio piccolo post pubblicato sul profilo facebook ha avuto moltissime reazioni. Molti si sono espressi a favore di una morte del detenuto in carcere, altri, invece, hanno provato a dissentire affermando che lo Stato di diritto non può e non deve comportarsi come si è comportato un criminale. Proviamo, dunque, a dire alcune cose che servano a spiegare alcuni passaggi e servano, soprattutto, a chiarire quanto ho affermato a proposito di un ipotetico differimento della pena a carico del detenuto.
Suggerisco di leggere tutto il post seppure lungo, alla fine del quale riproporrò il contenuto inserito ieri che, ne sono certo, avrà un respiro sicuramente diverso.
Salvatore Riina è stato condannato più volte all’ergastolo con sentenze passate in giudicato. I suoi ergastoli sono “ostativi” ovvero, a meno che egli non dimostri un serio ravvedimento collaborando ai sensi dell’articolo 58 ter della Legge 354/75, non può godere di nessun beneficio previsto dalla legge: permessi premio, semilibertà, lavoro all’esterno e affidamento in prova al servizio sociale. Può invece ottenere lo sconto di pena se la sua condotta è regolare. Sulla concessione della liberazione anticipata ci fu, nel 1993, una lunga disquisizione giuridica e vinse, in questo caso, lo Stato di diritto: quel beneficio era la dimostrazione di un ordinamento penitenziario che dava a tutti l’opportunità di rieducazione. La concessione della liberazione anticipata per un detenuto che sconta l’ergastolo è utile per poter richiedere i benefici dopo aver scontato una lunga parte di pena. Non nel caso dell’ergastolo “ostativo” che, di fatto, condanna il detenuto al fine pena “mai”.
La possibilità per ottenere dei benefici è legata a chi, anche “dopo la condanna si adopera per evitare che l’attività delittuosa sia portata a conseguenze ulteriori ovvero hanno aiutato concretamente l’autorità di polizia o l’autorità giudiziaria nella raccolta di elementi decisivi per la ricostruzione dei fatti e per l’individuazione o la cattura degli autori dei reati.” Si tratta di un articolo importante per chi intende collaborare o, nel caso di persone che hanno ampiamente confessato il crimine, riuscire mantenendo una condotta regolare e partecipando fattivamente all’opera di rieducazione, accedere a quei benefici già accennati. Il detenuto Salvatore Riina non si trova in queste condizioni e non ha chiesto al Tribunale di Sorveglianza l’applicazione dell’articolo 58 ter.
Salvatore Riina può, invece, ottenere permessi per gravi motivi previsti dall’ordinamento penitenziario e, più precisamente dall’articolo 30 dalla Legge 354/75. I permessi sono concessi in caso di imminente pericolo di vita per un familiare o di un convivente e, nel caso di Salvatore Riina sono concessi comunque con l’ausilio della scorta. Sono permessi di poche ore dove il detenuto è appoggiato al carcere più vicino e accompagnato a casa dei propri cari o in ospedale da una scorta della polizia penitenziaria. Il capo scorta può decidere (o, comunque l’ordinanza del magistrato può disporlo) di togliere le manette al detenuto al cospetto del familiare infermo.
L’ergastolo è previsto dal codice penale per alcuni reati gravissimi e seppure si tenti da molto tempo di abolirlo non c’è mai stata una reale volontà politica ad eliminarlo. L’ergastolo è un istituto giuridico terribile e sicuramente anacronistico. Bisognerebbe ripensare a quel fine pena “mai” scritta nelle vecchie cartelle dei detenuti che si traduce oggi, nelle nuove posizioni giuridiche computerizzate, nel fine pena 9999. L’ergastolo è una misura terrificante prevista dal codice penale. Ritengo sia completamente inutile ma è una condanna ancora in vigore e che chi giudica deve comunque comminare quando è prevista dalla Legge. Non è questo il terreno per parlare dell’inutilità dell’ergastolo in quanto nel caso di Salvatore Riina stiamo parlando di un’altra cosa.
L’ergastolo non ostativo (può accadere per alcuni reati dove il detenuto ha dato prova di piena collaborazione confessando anche in fase istruttoria i propri crimini) permette all’individuo un percorso complesso all’interno del carcere, un percorso graduale dove il detenuto comincia un dialogo costruttivo con i componenti dell’equipe (educatori, assistenti sociali, psicologi, polizia penitenziaria e direttore dell’istituto). Quel dialogo, quell’approccio sistemico, quel passaggio – anche molto doloroso – serve per effettuare l’osservazione della personalità prevista dal D.P.R. 230/2000 ed è diretta “all’accertamento dei bisogni di ciascun soggetto, connessi alle eventuali carenze fisico-psichiche, affettive, educative e sociali, che sono state di pregiudizio all’instaurazione di una normale vita di relazione.” Come si procede in questa fase molto delicata? Si acquisiscono i dati “giudiziari e penitenziari, clinici, psicologici e sociali e si provvede alla loro valutazione con riferimento al modo in cui il soggetto ha vissuto le sue esperienze e alla sua attuale disponibilità ad usufruire degli interventi del trattamento.” Questo è il nodo focale. L’ordinamento penitenziario non vuole un detenuto che accetta passivamente la detenzione, che la viva senza nessuna analisi. L’ordinamento penitenziario italiano chiede uno sforzo comportamentale a chi ha commesso un reato. E’ un vero e proprio patto, ma è un patto etico e trattamentale: “io mi occupo di te, garantendoti all’interno del penitenziario la giusta dignità” tu mi ripaghi rimettendoti in gioco. Se questo processo non accade, se il detenuto non ha nessun interesse al passaggio inclusivo, se il detenuto non vuole un dialogo con gli operatori (che rappresentano lo Stato) ne ha diritto. Ha il diritto a rimanere cattivo. Ma se non effettua quella riflessione prevista dall’articolo 27 che prevede “sulle condotte antigiuridiche poste in essere, sulle motivazioni e sulle conseguenze negative delle stesse per l’interessato medesimo e sulle possibili azioni di riparazione delle conseguenze del reato, incluso il risarcimento dovuto alla persona offesa” non può ottenere nessun beneficio. Si ha diritto anche a continuare a sbagliare o modificare il comportamento collaborando fattivamente durante l’esecuzione della pena, tanto che, sempre l’articolo 27 del Dpr. 230/2000 prevede “le eventuali nuove esigenze che richiedono una variazione del programma di trattamento”. Salvatore Riina, a quanto è dato sapere, non è raffigurabile nei passaggi previsti da questo articolo. Lo Stato, in questo caso, continua a mantenere il dovere di garantire a lui una vita dignitosa all’interno del penitenziario garantendogli i pasti, una camera comoda e luminosa, un medico per le cure. Questo è lo Stato di diritto.
Ricapitoliamo: Salvatore Riina è stato condannato all’ergastolo. I suoi reati sono tutti ostativi per ottenere dei benefici. Lui non ha mai chiesto e non ha mai ottenuto il riconoscimento di collaborazione previsto dall’articolo 58 ter e pertanto non può avere nessun permesso premio, nessuna semilibertà, nessun lavoro all’esterno. Salvatore Riina è stato condannato al carcere a vita e in pase alla sua complessa posizione giuridica non ha nessuna possibilità di ottenere una liberazione secondo l’Ordinamento Penitenziario anche perché non risulti abbia accettato l’osservazione scientifica della personalità o, comunque, abbia dato prova di ravvedimento effettuando quella riflessione sulle condotte antigiuridiche poste in essere.
Gli avvocati di Salvatore Riina hanno presentato al Tribunale di Sorveglianza di Bologna un’istanza di differimento della pena che non è un beneficio contemplato dall’ordinamento penitenziario, ma un istituto previsto dall’articolo 147 del codice penale il quale al secondo comma afferma che l’esecuzione della pena può essere differita: “se una pena restrittiva della libertà personale deve essere eseguita contro chi si trova in condizione di grave infermità fisica”. La ratio dell’articolo 147 risponde al dettato costituzione di diritto alla salute (articolo 32 della costituzione) e al senso di umanità delle pene contemplato nell’articolo 27 della costituzione. La valutazione del differimento per i detenuti condannati è demandata al Tribunale di Sorveglianza competente per territorio e la valutazione dei giudici dovrà chiaramente tenere oggettivamente conto della malattia, in relazione all’efficienza sanitaria del singolo istituto carcerario e l’eventuale scarcerazione temporale serve affinché al detenuto possano essere garantiti trattamenti più efficaci rispetto a quelli che possono essere prestati in regime di detenzione. Il tribunale di Bologna, il 20 maggio 2016 in prima istanza, ha rigettato la richiesta in quanto “il detenuto Riina (secondo il tribunale) è ancora in grado di partecipare alle udienze dei dibattimenti a suo carico (anche se steso su una lettiga) e il detenuto presso il centro diagnostico terapeutico del Carcere di Parma può disporre di tutte le cure necessarie che lo stato di detenzione nulla aggiunge alla sofferenza della patologia, essendo il rischio dell’esito infausto pari e comune a quello di ogni cittadino, anche in stato di libertà”. Gli avvocati hanno impugnato l’ordinanza del Tribunale di Sorveglianza di Bologna in quanto sostengono che il loro assistito versa in condizioni così gravi che sono “incompatibili con la permanenza in carcere”. L’impugnazione è finita in Cassazione e ieri, la prima sezione penale ha accolto l’istanza presentata dagli avvocati, chiedendo al Tribunale di Sorveglianza di Bologna di motivare meglio la negazione del differimento della pena. Le motivazioni del Tribunale sono state ritenute dalla Cassazione troppo affrettate e generiche e finiscono per essere “apodittiche, illogiche e contradditorie”. La corte aggiunge che per negare la sospensione della pena non basta affermare che gode di assistenza sanitaria adeguata, ma bisogna verificare “ogni stato morboso o scadimento fisico capace di determinare un’esistenza al di sotto della dignità che deve essere rispettata”, valutando” il complessivo stato di logoramento fisico in cui versa il soggetto anche in considerazione della sua vecchiaia”. Decisione rispettabilissima e da rispettare. Decisione storica e che dovrebbe essere valida, almeno da oggi, per tutti i detenuti presenti nelle carceri italiane. La corte di Cassazione si è pronunciata diverse volte sul differimento della pena e vale la pena citare la sentenza 972/2011 che recita: “ In tema di differimento (…) è necessario che la malattia da cui è affetto il condannato sia grave, cioè tale da porre in pericolo la vita o da provocare rilevanti conseguenza danne e, comunque, da esigere un trattamento che non si possa facilmente attuare nello stato di detenzione, operando un bilanciamento tra l’interesse del condannato ad essere adeguatamente curato e le esigenze di sicurezza della collettività”. Questa sentenza è fondamentale per comprendere il passaggio che divide il mondo tra le esigenze del singolo (il detenuto) e quelle della comunità. La Corte di Cassazione suggerisce di tener conto di entrambe le esigenze: quelle relative a salvaguardare il diritto fondamentale alla salute ed il divieto di trattamenti contrari al senso di umanità ma dice anche di tener conto delle esigenze di sicurezza. Anche questo è un orientamento meritorio di riflessione della suprema Corte.
Sgombrato il campo dalle questioni “squisitamente” giuridiche si tratta ora di analizzare alcuni passaggi, tutti fondamentali e importanti, che questa decisione ha prodotto. Morire in carcere è dignitoso? A questa domanda si potrebbe rispondere con un’altra domanda: Vivere in carcere è dignitoso? Inoltre il quesito va posto anche in un altro modo: si muore in carcere o si muore di carcere? Come vedete le strade cominciano a ramificarsi e ogni via merita una piccola visita. La dignità è un concetto altissimo che tutti gli uomini, in uno stato di diritto, meritano. Nessuno escluso. Merita dignità il Presidente della Repubblica, quello della Camera, il presidente della Regione, i giocatori della squadra avversaria, i cittadini italiani, quegli stranieri, i violentatori e i violentati, glia assassini e le vittime, gli alunni e i professori, i disoccupati e i dimenticati. Tutti hanno diritto di vivere e morire con dignità e questo diritto deve essere garantito nelle fabbriche, nelle scuole, in tutti i luoghi di lavoro, negli ospedali, nelle proprie abitazioni, nelle galere nei ricoveri per anziani. Nessuno ha messo e mette in discussione questo diritto sacrosanto. Qui, però stiamo parlando d’altro: il detenuto Salvatore Riina è attualmente ricoverato presso un ospedale (centro diagnostico terapeutico) all’interno del carcere di Parma. E’ ricoverato in una stanza identica fisicamente a quella di altri ospedali presenti nella penisola e gode, quindi, dello stesso trattamento di un qualsiasi paziente libero. Il centro diagnostico del carcere di Parma è dotato anche di una sala operatoria e molti detenuti comuni vengono trasferiti in quell’istituto per accertamenti diagnostici o per subire varie operazioni. All’interno dell’ospedale vi sono medici, specialisti, infermieri che devono garantire il diritto alla salute. Sono loro che hanno inviato al Tribunale di Sorveglianza la cartella clinica del detenuto Salvatore Riina e siamo sicuri che lo hanno fatto con obiettività e professionalità. Gli avvocati del detenuto affermano che le cure in stato di detenzione diano luogo ad una sofferenza aggiuntiva e che l’esecuzione della pena risulta incompatibile con i principi costituzionali. Il Tribunale di Sorveglianza ha affermato il contrario e la Cassazione chiede di motivare meglio questo passaggio. A luglio ci sarà una nuova decisione che dovrà tener conto di quanto dichiarato dalla Cassazione nei giorni scorsi, ma non potrà non tener conto della sentenza 972/2011 sempre della stessa Corte che ricorda le esigenza di sicurezza. Aggiungo: tutto questo dovrebbe, davvero, essere messo in opera per tutti i detenuti presenti negli Istituti italiani, molti dei quali non hanno neppure l’avvocato per chiedere il differimento della pena.
Dopo questa lunga cavalcata di parole concludo con il post che ha avuto moltissimi like, molte condivisioni e innumerevoli commenti.
“Mi dispiace dover dissentire totalmente da chi chiede una morte dignitosa a chi ha seminato terrore e tristezza senza mai tener conto della dignità della persona. Far morire Totò Riina in un carcere dello Stato non è una sconfitta per il paese. È una sconfitta per il detenuto che non ha saputo cogliere l’opportunità dell’articolo 27 della Costituzione: si è fatto di tutto per la sua rieducazione ma lui ha mantenuto quello sguardo chiuso e ottuso e non ha mai riconosciuto lo Stato italiano.”
Rispetto al post, che è la parte finale di un articolo apparso oggi sulla Nuova Sardegna, non modifico il mio pensiero. Il detenuto Riina è dignitosamente seguito all’interno di un ospedale che, per ragioni di sicurezza, garantisce anche la società. Il detenuto è stato condannato all’ergastolo e, per quanto sia una condanna anacronistica e profondamente ingiusta, ancora è in vigore. Lui, a quanto è dato sapere, non ha mai collaborato riflettendo “sulle condotte antigiuridiche poste in essere, sulle motivazioni e sulle conseguenze negative delle stesse per l’interessato medesimo e sulle possibili azioni di riparazione delle conseguenze del reato, incluso il risarcimento dovuto alla persona offesa”. Pertanto, dignitosamente, può continuare ad essere ben seguito e con dignità all’interno dell’ospedale del carcere con tutte le garanzie di uno Stato di diritto.
Nato a Oristano. padre gallurese, madre loguderse, ha vissuto ad Alghero, sposato a Castelsardo e vive a Cagliari. Praticamente un sardo DOC. Scrive romanzi, canta, legge, pittura, pasticcia e ascolta. Per colpa del suo mestiere scommette sugli ultimi (detenuti, soprattutto) e qualche volta ci azzecca. Continua a costruire grandi progetti che non si concretizzano perché quando arriva davanti al mare si ferma. Per osservarlo ed amarlo.
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