In trentacinque anni tutti hanno raccontato tutto sulle storie personali di ciascuno degli ottantuno morti del disastro aereo di Ustica. L’ottantaduesimo morto è la compagnia aerea Itavia, titolare del DC9 precipitato quel 27 giugno del 1980. Una vittima e al tempo stesso una prova da nascondere, da levare di mezzo. Itavia venne dichiarata fallita pochi mesi dopo la strage, defraudata della licenza di volo dall’autorità statale preposta e dunque impossibilitata ad operare e far proseguire il lavoro dei mille dipendenti. Era stata fondata nel 1958 ed era controllata dall’imprenditore Aldo Davanzali, scomparso nel 2005 e accompagnato negli ultimi 25 anni dalla sua vita dall’accusa di essere stato il padrone di un’azienda negligente nella manutenzione degli aerei e, dunque, colpevole di quella sciagura. Davanzali non si arrese mai all’idea che la schifosa menzogna di un cedimento strutturale di quel mezzo della sua flotta – la versione ufficiale data in pasto all’opinione pubblica – potesse diventare una verità, come accade quando le bugie non contrastato vengono lentamente fatte scivolare da pigrizia e disinteresse nel campo delle certezze assolute. Un esempio illuminante sulle capacità di manipolazione della realtà di cui uno o più Stati sanno essere capaci. Davanzali la vittoria delle sue ragioni sancita dalla Cassazione non se l’è potuta gustare e, del resto, se il destino gliene avesse dato l’opportunità quella vittoria avrebbe avuto un gusto amaro. Trent’anni dopo un fallimento dettato dalla ragione di Stato, dal divieto di indagare sull’ipotesi di un aereo civile diventato per errore bersaglio di un missile scagliato da un jet militare. Tutti i governanti del tempo sapevano che questa era l’esatta dinamica degli eventi: lo affermò molti anni dopo Francesco Cossiga, lo ritenne plausibile Gianni De Michelis. Ma, al tempo, sul conto di Davanzali insinuavano fosse interessato ad avvalorare l’ipotesi di una causa esterna per riscuotere i ricchi premi previsti dalle assicurazioni. Anch’io e tante altre persone sapevamo che un jet francese, mentre inseguiva il velivolo su cui viaggiava Gheddafi, aveva colpito per sbaglio un aereo italiano. Lo sapevamo semplicemente perché avevamo letto e ci eravamo informati da fonti alternative ma accessibili a tutti, lo sapevamo perché il Mig libico ritrovato sulla Sila il 18 luglio del 1980 era la più chiara delle conferme. Io sapevo. Lo sapevo perché nell’inseguimento delle verità nascoste cercavo di chetare l’angoscia impadronitasi del bambino che ero, l’angoscia mostruosa che invade una creatura di nove anni di fronte all’immenso ed inspiegabile buco nero di un disastro immane, all’orrore dei bambini uccisi e della sagoma irriconoscibile di quel cadavere galleggiante con una gamba mozzata. Ricordo il momento esatto: mia nonna corse a raccontarmi “dell’apparecchio caduto” mentre, nell’orto della casa di campagna di Aglientu, addentavo un pomodoro appena colto. Me lo ricordo, quell’istante, come una cicatrice profonda incisa nella pelle. Come il buio della morte in una mattino estivo colore pastello. Io sapevo. Possibile che io, Francesco Giorgioni, modesto giornalista di provincia al momento disoccupato, figlio di camionista e casalinga, sapessi già da anni quel che oggi le autorità giudiziarie affermano sul disastro di Ustica, dopo anni di menzogne in nome della ragion di Stato. Possibile che tutti sapessimo e chi doveva scrivere la verità non potesse gridarla?
Nato nel 1971 ad Arzachena ed ivi smisuratamente ingrassato negli anni seguenti, figlio di camionista e casalinga. Titoli appesi alle pareti: laurea in Lettere moderne all'Università di Sassari, iscrizione all'albo dei giornalisti professionisti, guida nazionale di mountain bike, presidente della Asd Smeraldabike, direttore della testata Sardegnablogger. È stato redattore di tre diversi quotidiani sardi: dal primo è stato licenziato, gli altri due sono falliti. Nel novembre del 2014 è uscito il suo primo e-book "Cosa conta".
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