Il 7 maggio di cinque anni fa, l’Italia si è risvegliata senza un Giulio Andreotti cui appiccicare una qualunque colpa, la responsabilità di un qualunque complotto e la regia di un’esecuzione. Facile. Andreotti era quello condannato per concorso esterno in associazione mafiosa (fino al 1980), il capo del governo accusato di fare guancia a guancia con i boss della mafia e cui la mafia aveva assassinato il suo luogotenente siciliano, Salvo Lima, l’uomo che secondo una certa storiografia aveva più interesse di qualunque altro a far sparire un giornalista fuori dagli schemi come Mino Pecorelli. E poi gestiva il comando affidandosi a gente come Evangelisti, Sbardella, Ciarrapico e Cirino Pomicino, il che valeva un’automatica condanna. Gli si poteva attribuire qualunque nefandezza, semplificando con ciò analisi più approfondite e risparmiando una gran fatica. A fine carriera ce ne ha messo di suo, con quel terrificante e imperdonabile “se l’è andata cercando” riferita all’omicidio di un vero eroe come Giorgio Ambrosoli: ma qui mica si vuole sostenere che Andreotti fosse un santo, figuriamoci, qui si dice solo che è troppo facile vedere in lui tutto quel che di oscuro c’è stato nell’Italia nel dopoguerra. Non so se l’Italia senza Andreotti sia migliore di quella con Andreotti.
Sono stato cresciuto, non dai miei genitori ma da quel poco di cultura politica che ho respirato, nella convinzione che Giulio Andreotti fosse la personificazione del male, la combinazione tossica di realpolitik e Vaticano, il diavolo subdolamente mascherato dal doppiopetto, dalla gobba e con le spalle strette di chi non ha mai fatto esercizio fisico in vita sua. Il professore di filosofia che ho avuto negli ultimi due anni di liceo, si chiamava Fava, un giorno provò a darci la sua spiegazione su un fatto di cronaca politica di fine anni ottanta. Le pagine dei quotidiani, di cui allora ero vorace lettore, erano zeppe di titoli su un raggelante avvertimento indirizzato all’Italia da Andreotti, che mi pare di ricordare fosse negli Stati Uniti in missione politica. Non so quali accuse o insinuazioni lo avessero colpito e lui, Giulio, normalmente molto misurato nelle esternazioni, quella volta replicò, facendo sapere che era molto meglio “non suscitare l’ira dei calmi”. Il professore, un comunista pieno di fascino che ci concedeva ogni libertà, spiegò che Andreotti era uno scrupoloso collezionista di dossier: sapeva tutto di tutti e sapeva come ricattare chiunque gli stesse attorno, amici e nemici (metodo che in effetti, in altri ambienti, ho constatato poter essere alla base di grandi fortune).
E poi, crescendo, mi cantarono che “qualcuno era comunista perché Berlinguer era una brava persona/qualcuno era comunista perché Andreotti non era una brava persona” e, nella registrazione del pezzo di Gaber, partiva un applauso così commosso che era impossibile non credergli. Forattini, il giorno dopo il caffè amaro di Sindona, disegnò una tazzina con delle grandi orecchie a sventola. Benigni osservò che sul sesso Andreotti “non sa nulla, gli è venuta la gobba a forza di cercarselo”. Uno così cattivo doveva per forza avercelo piccolo. Pare che Andreotti si fosse molto risentito con Paolo Sorrentino per la biografia che questi ne ha fatto nel film “Il divo”, film per il quale ho sviluppato una forma di dipendenza. Strano (che Andreotti si sia arrabbiato, non la mia dipendenza dal film), perché dalla complessità di quel ritratto io credo esca, alla fine e tutto sommato, un giudizio comprensivo sull’interessato: un uomo profondamente solo come ogni vero potente, cattivo come ogni potente capace di restare a galla per tanto tempo, circondato da gente agghiacciante di cui riusciva tuttavia a servirsi come ogni vero potente, ma costretto ad accettare l’idea, drammaticamente realista, che “occorra fare tanto male per fare del bene”. Un uomo consapevole e ambizioso quanto bastava da poter dire “sono di media statura, ma non vedo giganti attorno a me”, un uomo che si alza in piedi e applaude quando il Parlamento elegge Oscar Luigi Scalfaro presidente della Repubblica, certificando il tradimento della Dc nei suoi confronti. Un uomo che si difende al processo contro la mafia, non scappa per sfuggire alle regole dello Stato.
C’è una sequenza di quel film in cui Andreotti sta seduto accanto alla moglie Livia, su un divano, composto e impassibile, mentre intorno a lui è tutto uno sfavillare di luci, un rimbombare di suoni tribali vomitati a volume altissimo, un dimenarsi scatenato di gente che balla senza freni nella villa di Cirino Pomicino. Lui partecipa nel senso che vede, osserva, stringe mani con gesto misurato, ma non abbandona mai il suo divano e alla solita ora, ubbidendo alla moglie, saluta e se ne va, quando la festa sta per entrare nel vivo. Riusciva a stare in posti in cui era palesemente fuori posto, perché sapeva come il consenso si costruisca fuori da gusti e abitudini, ricorrendo a forme di cinica empatia. Era anaffettivo, Andreotti, incapace di gesti di calore fisico: lo ammetteva lui stesso.
Eppure, più passano gli anni e più mi ripugna questa Italia abituata ad eleggere un signor Malaussène per spiegare ciò che non riesce a spiegare, a trovare un capro espiatorio anziché cercare di comprendere la reale complessità delle cose. L’Italia di quelli che guardano gli altri correre e, seduti a bordo campo, indicano come avrebbero fatto le cose, senza mai sporcarsi gli scarpini, ché loro sono anime candide e al di sopra della volgare contesa delle parti. Io, con gli anni, di questi sedicenti puri ho imparato a diffidare più che dell’ambiguo potere del male assoluto altrimenti detto Andreotti. Il potere presuppone, secondo me, sempre una certa percentuale di frode, di colpa, che non è innata nella persone che lo detengono ma appartiene al potere stesso, alla necessità del compromesso, al bisogno di guardare ai numeri e assecondare i volubili flussi delle maggioranza.
Andreotti sapeva che era così perché conosceva l’Italia, ne conosceva la ferocia nel fare la morale e condannare senza appello e, nello stesso tempo, la disinvoltura nello scendere a patti con il peggiore delinquente, purché offrisse raccomandazioni e lavoro, sporco quanto sia. Oggi, vedendo questi mestieranti che da due mesi cercano di trovare equilibri per formare un governo, si è colti dalla incredibile tentazione di rimpiangere Andreotti, anzi, si è colti dalla tentazione di considerarlo un gigante. I cui governi duravano al massimo un’estate o un anno, che saranno forse stati l’apoteosi del compromesso e l’incontro di interessi oscuri, ma almeno c’erano ed evitavano l’umiliazione di due elezioni politiche in un anno, col vuoto in mezzo. Governi che forse qualcosa hanno fatto, guardando all’Italia di settant’anni fa e raffrontandola a quella di oggi. Forse è venuto il tempo di ammettere che Giulio Andreotti non era il male assoluto, ma un male relativo, relativo come la statura delle persone.
Nato nel 1971 ad Arzachena ed ivi smisuratamente ingrassato negli anni seguenti, figlio di camionista e casalinga. Titoli appesi alle pareti: laurea in Lettere moderne all'Università di Sassari, iscrizione all'albo dei giornalisti professionisti, guida nazionale di mountain bike, presidente della Asd Smeraldabike, direttore della testata Sardegnablogger. È stato redattore di tre diversi quotidiani sardi: dal primo è stato licenziato, gli altri due sono falliti. Nel novembre del 2014 è uscito il suo primo e-book "Cosa conta".
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