Ciò che il cuore raccoglie non basta. Aggirarsi tra le macerie di una sinistra sconfitta, divisa, rissaiola, votata all’autocommiserazione, si scopre un popolo senza una meta ben precisa. Annichilito dallo strapotere degli slogan, impossibilitato a contrapporre i muscoli perché è con la testa che si ragiona, questo popolo abbandonato non ha più la forza di partire ma, al massimo, ripartire. E non è la stessa cosa. Veltroni in due pagine su Repubblica ci ha tratteggiato quel popolo sull’orlo di una crisi d’identità. Ha ammesso alcuni errori, ne ha tralasciati altri. Nicola Zingaretti riparte da uno slogan (ancora?) che dovrebbe riuscire a rifondare il partito: piazza grande. Bel titolo, da “storytelling”, da racconto dei giorni nostri, ottimista e proiettato verso le elezioni europee. Chiedo: abbiamo bisogno di slogan? È questo il problema della sinistra? Siamo sicuri che siano proprio questi i “fondamentali”? Ricordo che alla fine degli anni settanta si litigò all’interno di una sinistra ortodossa (PCI) contro quella più lib-lab (PSI) su un saggio pubblicato nell’agosto del 1978 dal settimanale l’Espresso. Si parlava di Proudhon e la definitiva rottura con la tradizione marxista e leninista da parte del partito socialista. Craxi, eletto nel 1976, intendeva modernizzare il partito. Chi era Pierre- Joseph Proudhon? (capisco il pistolotto ma seguitemi che forse ha un senso) Era un francese nato misero (suo padre era un fabbricante di barili di birra) e fu costretto, da giovane, a tralasciare gli studi per dare una mano in famiglia. Pierre dovette rinunciare a concludere il liceo ma non rinunciò a pensare. Divenne prima articolista di alcune testate ed infine filosofo. Lui era concettualmente un anarchico e un vero accanito contro la proprietà che concepiva come un furto legalizzato. Diceva Proudhon: ““Se il lavoro, l’occupazione effettiva e feconda, è il principio della proprietà, come spiegare la proprietà presso colui che non lavora? Come giustificare l’affitto? Come dedurre dalla formazione della proprietà mediante il lavoro il diritto di possedere senza lavoro? Come concepire che da un lavoro sostenuto durante trent’anni risulta una proprietà eterna?”.
Tutti i mezzi per ritrovare la loro legittimità dovevano, per Proudhon, appartenere a chi li adopera, ovvero ai lavoratori e non al padrone capitalista. Con Karl Marx Proudhon ebbe degli incontri molto turbolenti e finirono con accuse reciproche. Il pensiero di Proudhon definito come “socialismo utopistico” è considerato irrealizzabile anche se in contrapposizione al comunismo e al socialismo scientifico Engeliano. Perché questo pistolotto? Perché, a mio avviso, si è perso il modo di ragionare che alla fine degli anni settanta portò a liti furibonde ma su concetti forti. Oggi le liti si riducono a “sputtanamenti” tra fazioni diverse, tra correnti dissimili, a rinfacciarsi cose fatte male o accusare repentinamente gli altri. Rileggendo Veltroni mi son ricordato di quando si litigava su Proudhon, di quando i settimanali svolgevano un compito divulgativo e di opinione e ho capito che il cuore non basta. Come non basta rifondare. Occorre non allargare la piazza ma raderla completamente al suolo, eliminare gli orpelli che appartengono alla pancia della gente, eliminare le frasi facili. Dobbiamo smarcarci da questa voglia di inseguire gli altri sullo stesso terreno sul quale, guarda caso, ci sputiamo sopra. Smettiamola di utilizzare la frase “siamo diversi ma siamo uguali agli altri partiti”, smettiamola di costruire convention basate sul nulla. Smettiamola di demonizzare Salvini e Di Maio, smettiamola di commiserare chi ha votato per questi partiti che in gran parte, guarda caso, fanno parte della classe operaia. Se riparlassimo di Proudhon e di Marx, per esempio, potremmo ripassare gli anni dell’economia, della globalizzazione, dello sfruttamento degli ultimi attuati anche da chi plaudeva all’anarchia socialista di Proudhon e al relativismo di Marx. Insomma: il cuore serve, ma non basta. Partiamo dalla storia e anziché rifondare, cominciamo a rileggere. Male non ci farà.
Nato a Oristano. padre gallurese, madre loguderse, ha vissuto ad Alghero, sposato a Castelsardo e vive a Cagliari. Praticamente un sardo DOC. Scrive romanzi, canta, legge, pittura, pasticcia e ascolta. Per colpa del suo mestiere scommette sugli ultimi (detenuti, soprattutto) e qualche volta ci azzecca. Continua a costruire grandi progetti che non si concretizzano perché quando arriva davanti al mare si ferma. Per osservarlo ed amarlo.
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