Il piccone risanatore per la prima volta oscurò con la sua ombra il futuro di Sassari nel luglio del 1926. “Sventrare, abbattere, ricostruire” era l’ordine: in questa prima fase si sarebbero dovute buttare giù 4126 case in una vasta zona del centro storico. Ed è qui che mi porta la Macchina del Tempo di oggi. La minaccia, che per gli speculatori edilizi era una promessa, venne posposta e si ripresentò periodicamente, alle volte in proporzioni persino maggiori almeno nelle intenzioni, sino agli anni Novanta, con due climax: uno nel 1940, quando l’architetto di regime Concezio Petrucci con la sua firma avvallò il disastro e si cominciò a demolire partendo da via Dei Corsi, con l’intento di fare scomparire una grande parte della città murata. La guerra bloccò tutto e di quell’inizio di “risanamento” restò soltanto uno spiazzo di macerie che certi discussi aggiustamenti del dopoguerra trasformarono nell’attuale piazza Mazzotti. Il secondo episodio consiste nelle demolizioni che negli anni Cinquanta e Sessanta, in piazza Castello, spianarono l’area per i due “grattacieli”, due palazzoni inchiodati in pieno centro storico, in una zona compresa entro le vecchie mura. L’idea di cancellare la storia con picconi e ruspe è una costante antica dell’imprenditoria sassarese. Non piani regolatori che prevedessero uno sviluppo ordinato già da quando si poterono scavalcare le mura per espandere la città nelle direzioni più opportune, insieme a un recupero ordinato e rispettoso dell’esistente della zona antica, ma caccia selvaggia alle aree centrali, a costo di sconvolgere il reticolo medievale delle vie sassaresi, rimasto pressoché intatto, demolendo interi quartieri, per ricavare aree per nuovi palazzi e con l’intento di convogliare in ghetti periferici i residenti sfrattati. Tutto questo, naturalmente, all’insegna del “risanamento”. Risanamento, tra l’altro, da un degrado provocato da proprietari e speculatori e dai mancati interventi pubblici di carattere urbanistico e sanitario. Se la città vecchia è stata sventrata soltanto in minima parte rispetto alla volontà della politica e dell’imprenditoria è stato soltanto per un concatenarsi di fortunosi eventi che pur essendo in certi casi drammatici, come quello dell’entrata in guerra nel 1940, servirono a evitare di trasformare Sassari in una città senza anima urbana, dove senza dubbio il declino culturale ed economico sarebbe stato persino più incalzante di quanto sia ora. Ricordo negli anni Novanta, quando la cultura della conservazione e del recupero era nel mondo senz’altro più avanzata rispetto ai tempi del piccone fascista e delle speculazioni del dopoguerra, di avere visto nascere in ambito comunale l’idea di una sorta di trionfale via che, come quella Della Conciliazione a Roma aveva raso al suolo la suggestiva e antica Spina dei Borghi, avrebbe dovuto unire la piazza Mazzotti a Corso Vico facendo macerie del bellissimo e tutt’altro che degradato rione di Sant’Apollinare. Anche allora tutto si bloccò, questa volta credo soprattutto per un’opposizione ideologica e culturale nell’ambito dei partiti, ma ricordo il disprezzo e la rabbia con la quale venivo guardato io, cronista, che con il mio giornale mi opponevo a quello scempio. Frasi istrioniche del tipo “ma dove sono queste regge di Varsailles da salvare? Qui ci sono soltanto sottani”. Ed era inutile spiegare che non si trattava di salvare le regge ma un’idea di città. Loro lo sapevano bene, ma, precursori dell’attuale populismo, volevano fare passare per stupidi radical chic, per intellettuali segaioli, tutti coloro che si opponevano a quella distruzione. In quei giorni confidai il mio sconcerto e la mia sfiducia verso la classe dirigente cittadina a un vecchio uomo politico che sembrava condividere le mie paure. E il giorno dopo appresi che proprio a casa sua si tenevano le riunioni segrete e trasversali ai partiti in cui si metteva a punto questo nuovo tentativo di sventramento. Allora feci un sogno che raccontai a Manlio Brigaglia, il quale ne parlò anche in un suo scritto e mi disse che era roba da dare lavoro a storici e psicanalisti per un bel po’ di tempo. “Un sogno bellissimo – mi disse -. Però tu fatti curare”. Pensate che sognai di essere un carabiniere che alla vigilia del 28 ottobre del 1922, per chissà quale miracolo, conosceva il futuro d’Italia e sapeva che disastro sarebbe avvenuto se il Re si fosse arreso ai fascisti che già marciavano verso Roma. Ero di servizio d’ordine accanto a Sciaboletta e disperato mi rivolsi a lui implorando -Maestà, per carità, firmi lo stato d’assedio, faccia disperdere i fascisti, non dia l’incarico a Mussolini o sarà la dittatura e poi la guerra. Nel sogno vidi il Savoia incupirsi, vidi i suoi occhi divenire cattivi, borbottò qualche parola ai miei colleghi senza distogliere lo sguardo da me e capii che il vero burattinaio di quel colpo di Stato era lui e che aveva appena ordinato di uccidermi. A un tratto, nel sogno, ero di nuovo io. E pensavo alle mie figlie e a mia moglie e a quanto avrebbero sofferto per la mia morte. Presi a fuggire, mentre fantasmi senza volto mi inseguivano e corsi nella rete di viuzze della Spina, che nel 1922 ancora c’era e c’era il fascino per chi la attraversava di sbucare a un tratto da quel labirinto di penombre per farsi prendere dall’abbraccio universale del colonnato di Bernini. E nel sogno cercavo la salvezza in quell’abbraccio, ma mentre correvo le case crollavano, sino a quando Spina di Borgo cadde tutta in un fragore di muri e tetti e in una nuvola di polvere. Il Re e il Duce si erano stretti la mano. E mi svegliai.
Nato nel 1951, ottobre (bilancia, ma come tutti quelli della bilancia non crede nell'oroscopo). Giornalista dal 1973. Scrive anche altra roba. Ma gratis, quindi non vale.
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