In tempi nei quali la sottosegretaria alla Cultura Lucia Borgonzoni (Lega) dichiara di non avere letto un libro per diletto o per edificazione personale da almeno tre anni, mister Bemis è un santo. Anzi, un martire. Henry Bemis è il protagonista di “Tempo di leggere”, la storia più nota della prima serie tv (quella in bianco e nero) di “Ai confini della realtà”. Impiegato di banca, ha una smodata passione per la lettura che viene osteggiata dai suoi superiori. Mentre si trova nel caveau, esplode la bomba atomica (siamo a cavallo tra i Cinquanta e Sessanta, in piena psicosi nucleare) e lui riemerge dal sotterraneo in una città dove scopre di essere l’unico sopravvissuto. Mentre si aggira smarrito tra le rovine, si imbatte in quelle della Biblioteca nazionale, dalla quale traboccano valanghe di libri intatti. Finalmente felice, Henry si siede su uno scalino del monumentale ingresso, sceglie un volume, si china, gli cadono gli occhiali, le lenti si rompono. E Henry, senza quelli, è cieco come una talpa.Il signor Bemis per l’Istat o per l’Aie (Associazione Italiana Editori) sarebbe un “grande lettore”. In realtà è un lettore compulsivo ma nelle classificazioni statistiche questa categoria non esiste.Rappresenta due condizioni che descrivono alla perfezione il mondo della lettura in una città, per esempio, come Cagliari, Sassari, Nuoro oppure Olbia. La prima è che quello dei libri è mondo di élite. L’altra è che non si tratta – se non in piccola parte – di un’élite socio-economica ma intellettuale. In parole povere, se parliamo di banche come quella di Henry Bemis, i dirigenti in linea di massima leggerebbero poco, mentre i “grandi lettori” andranno cercati tra i loro impiegati. E’ un discorso strano, spesso contraddittorio, quello del rapporto tra segmenti sociali e lettura. Numerose indagini nel mondo individuano rapporti tra Pil e quantità e qualità della lettura (Pil alto uguale più lettori e lettori più evoluti), stabilendo addirittura in questa attività intellettuale uno dei fattori principali nella formazione di classe dirigente matura, moderna e competitiva a livello mondiale. Eppure in Sardegna, dove i dati di lettura sono tutto sommato buoni nonostante un Pil non buono, non c’è un grande brulichio di classe dirigente in progress. La Sardegna è comunque in una dignitosa posizione nel consumo di libri. E questo nonostante la disastrosa situazione demografica: circa il 70 per cento dei comuni ha infatti meno di tremila abitanti e le librerie hanno ormai la possibilità di sopravvivere soltanto nei grossi centri. A fare crescere il numero dei lettori c’è senz’altro il contributo delle biblioteche pubbliche: al sesto posto a livello nazionale come qualità delle strutture e addirittura al quarto posto per il numero dei frequentatori. Un dato fortemente positivo che si forma soprattutto nei tanti piccoli paesi dotati di ottime biblioteche pubbliche e privi o quasi di librerie. In Sardegna quindi la quota dei “lettori abituali” (almeno un libro al mese) è di circa il 47 per cento, cioè più della media nazionale (41 per cento). Comunque un dato molto più alto di quello del Meridione. I dati principali sono quelli di un’indagine Istat del 2017 nella quale il livello di lettura italiano è agli ultimi posti tra i Paesi occidentali. E l’Aie sospetta che durante tutto il 2018 non ci siano stati segnali di miglioramento se non quelli relativi ai libri pubblicati: più libri e meno lettori, cioè si scrive di più e si legge di meno. Paradossalmente (se nell’era dell’esaltazione politica e sociale della non cultura questo può essere considerato un paradosso) possono esistere autori di libri che a malapena hanno letto in vita loro tre o quattro libri, a parte quelli dell’obbligo scolastico.Forse ha ragione Riccardo Franco Levi, direttore dell’Aie, quando dice: “Ho il sospetto che a questa condizione contribuisca culturalmente il concetto sempre più diffuso che il libro sia qualcosa di non edificante”.La figura dell’ignorante fiero della sua ignoranza dilaga nei social, in certe trasmissioni radiofoniche diventa una figura positiva, ci sono addirittura personaggi normalmente colti che esagerano e spettacolarizzano la loro presunta ignoranza. È un fenomeno incoraggiato da molta della base dei dei due partiti al governo e da alcuni dei loro dirigenti. In misura maggiore naturalmente la Lega, ma anche nel M5S si nota talvolta una certa beffarda indulgenza verso gli attacchi agli intellettuali. E quindi negli strumenti di diffusione tengono banco eroi che disprezzano e sfottono ogni ragionamento minimamente elaborato (“intellettuale”, il peggiore insulto), spingono a odiare i “giornalisti prezzolati” e i cosiddetti “professorini” che fanno il gioco di chi comanda, dimenticando che ora comandano quelli che loro hanno votato.Forse una reazione all’antica, supponente, antipatica e spesso strumentale dittatura culturale di una sinistra che negli ultimi anni ha approfittato del suo dominio in questo campo per appoggiare una politica sempre meno di sinistra e sempre più lontana dai ceti meno privilegiati.Ma anche un raffinato strumento della nuova destra, che sarà populista ma che in fondo all’animo cova paura verso il popolo: meglio indurlo a esaltare l’ignoranza per tenerlo ignorante e quindi inoffensivo. Esattamente il contrario della strategia che in campo culturale usava la sinistra quando era ancora di sinistra.
(In alto, una scena di “Tempo di leggere”, della serie televisiva “Ai confini della realtà”)
Nato nel 1951, ottobre (bilancia, ma come tutti quelli della bilancia non crede nell'oroscopo). Giornalista dal 1973. Scrive anche altra roba. Ma gratis, quindi non vale.
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