Sono trent’anni dalla tragedia dell’Heysel e io ricordo quasi tutto. Ricordo e so che il calcio, da quel giorno, è diventato un’altra cosa. Un’altra cosa, non una cosa migliore. Avevo appena compiuto quattordici anni, avevo addosso una maglietta bianca e un paio di pantaloncini colorati. La mia tribuna era una sedia di legno massiccio e io stavo col naso appiccicato al televisore Zanussi venti pollici, il primo a colori posseduto dalla mia famiglia (la gioia dei mondiali del 1982, per me, fu in bianco e nero). Sono juventino da quando avevo sette anni, dai campionati in Argentina: stravedevo per Roberto Bettega ma, soprattutto, per Franco Causio. Il primo libro che mi regalarono si intitolava “Grazie Azzurri”, autori Bruno Perucca e Giovanni Arpino, e celebrava quel quarto posto conquistato a dispetto dei pronostici dalla squadra di Bearzot. Lo sfogliavo col cuore gonfio di emozione prima di andare a dormire, tutto quel che leggevo aveva per me toni epici e solenni. Ricordo una foto: il Barone Franco Causio palleggia sulla linea del fallo laterale, il suo corpo stretto nella maglia azzurra attillata trasmette eleganza ed armonia. La didascalia diceva: “Causio, il più brasiliano tra gli italiani”. E dunque io giocavo a pallone con la maglia bianconera numero 7, il numero 7 adesivo che mio babbo comprava dal gommista di paese. Il calcio era felicità, un pallone ed un prato verde non potevano che essere felicità. La sera del 29 maggio 1985 ero solo a casa. Per un beffardo (a ripensarci oggi) caso del destino, poco prima della partita mio fratello undicenne si era fratturato un braccio durante una partita di allenamento. Babbo e mamma lo portarono all’ospedale e io assistetti a quell’orrore senza nessuno accanto. La confusione, l’ansia nelle parole scandite da Bruno Pizzul e l’annuncio dei 36 morti, preceduto da una premessa del commentatore che lasciava presagire il peggio: “Questa è una notizia che io devo dare”. Dentro di me, io mi convinsi che non poteva essere vero. Feci credere a me stesso che quei 36 morti erano certamente uno sbaglio, un’informazione sbagliata. La morte e la felicità non c’entravano nulla l’una con l’altra, certo che era un errore!
Ho detto che ricordo “quasi” tutto. Quasi, perché in realtà della partita ricordo solo il rigore di Platini per il fallo fuori area su Boniek e il giro di campo finale con la Coppa dei Campioni. Ricordo il dopo. La rabbia contro gli hooligans nelle parole furenti di Margaret Tatcher, la scritta “Torino -36” su un muro di Roma, le storie e le ricostruzioni dei giorni seguenti. Fino allora, nella mia vita ero stato allo stadio per un partite di serie A e per una finale dei campionati europei, Belgio-Germania del 1980, all’Olimpico di Roma. Sono rimasto un grande appassionato di calcio, ma da quella sera non mi è mai venuto in mente di andare a vedere un match importante dal vivo. Non vado più neppure alle partite di paese, perché anche la sola violenza verbale dei tifosi mi infastidisce. Sono passati trent’anni. Per una partita di calcio si continua a morire, gli stadi restano aree esenti dalla legalità, migliaia di poliziotti vengono spostati alla domenica per presidiare i luoghi del calcio, quel calcio che per me era solo felicità. Sono passati trent’anni dall’Heysel, ma è come se fosse oggi.
Nato nel 1971 ad Arzachena ed ivi smisuratamente ingrassato negli anni seguenti, figlio di camionista e casalinga. Titoli appesi alle pareti: laurea in Lettere moderne all'Università di Sassari, iscrizione all'albo dei giornalisti professionisti, guida nazionale di mountain bike, presidente della Asd Smeraldabike, direttore della testata Sardegnablogger. È stato redattore di tre diversi quotidiani sardi: dal primo è stato licenziato, gli altri due sono falliti. Nel novembre del 2014 è uscito il suo primo romanzo, "Cosa conta".
Da Mattarella a Zelensky passando per Sanremo.
Elio e le storie disattese (di Francesco Giorgioni)
Un rider non si guarda in faccia (di Cosimo Filigheddu)
Ciao a Franco dei “ricchi e poveri”. (di Giampaolo Cassitta)
La musica che gira intorno all’Ucraina. (di Giampaolo Cassitta)
22 aprile 1945: nasce Demetrio Stratos: la voce dell’anima. (di Giampaolo Cassitta)
Ha vinto la musica (di Giampaolo Cassitta)
Sanremo non esiste (di Francesco Giorgioni)
Pacifisti e pacifinti (di Simone Floris)
Lo specchietto (di Salvatore Basile)
Da San Gavino a San Cristoforo, quando colonizzammo il Villaggio Verde. Ovvero il trasloco (di Sergio Carta)
Se riesco a buscare 5000 Lire ci vediamo allo Zoom, ovvero le pomeridiane in discoteca degli anni’80. (di Sergio Carta)
Papa Fazio (di Cosimo Filigheddu)
Inserisci il tuo indirizzo e-mail per iscriverti a questo blog, e ricevere via e-mail le notifiche di nuovi post.
Unisciti a 18.023 altri iscritti
Indirizzo e-mail
Iscriviti
sardegnablogger ©2014 created by XabyArt - graphic & web design