Io adesso non voglio fare giornalismo d’indagine. Ci sono già troppi Carl Bernstein o Andrea Purgatori dei poveri perché mi ci metta anch’io. Io su Pasolini non ho fatto indagini, non ho sentito testimoni, non ho parlato con alcun protagonista. Io ho solo gli elementi che ciascuno di voi potrebbe avere per convincersi che Pasolini l’hanno ammazzato i fascisti con la complicità di “parti di Stato”. Le chiamo così giusto per capirci. Perché un po’ mi ripugna l’associare al concetto di Stato quei grumi di sangue e saliva sputati dal Paese tubercolotico che allora eravamo. Bisogna averli vissuti gli anni Settanta per capire che aria tirasse e quali rischi abbia fatto correre alla nostra povera Italia la terra di mezzo dove si incontravano apparati deviati (così almeno spero) e fascisti. E per respirarla a pieni polmoni, quell’aria, aiutava il fatto di fare i cronisti, anche in provincia. Cominciai a riflettere seriamente sulla morte di Pasolini in un pomeriggio del 1998, quando telefonai a Dario Fo. Ci eravamo conosciuti a Sassari nel 1973, quando era stato arrestato dalla polizia in una irruzione nel teatro Rex, dove stava per rappresentare con Franca Rame il suo spettacolo “Guerra di popolo in Cile”. Avevo seguito la faccenda come cronista. Mentre lo interrogavano nell’ufficio del questore Voria, io facevo su e giù per le scale e tenevo informata Franca Rame, che stava sulla soglia della questura con tutta l’ansia di una moglie innamorata e l’indignazione di una militante coraggiosa. Era ancora più bella con quei sentimenti che le si confondevano in viso. A notte le diedi l’ultima notizia: “Qui è tutto finito, lo stanno portando in galera, a San Sebastiano”. Mi aspettavo che la tensione si rompesse in un pianto. Invece vidi i suoi tratti distendersi quasi in un sorriso di sollievo. Come cronista era ancora un poppante, ma ebbi un’intuizione: era sollevata perché una volta in carcere il suo uomo sarebbe stato protetto dallo scudo della magistratura, fuori dalle grinfie di un pezzo di polizia di cui lei diffidava perché non sapeva a quale pezzo di Stato appartenesse. Allora si era costretti a ragionare così. E soprattutto pochi mesi prima Franca Rame era stata stuprata e torturata. Cinque o sei bestie l’avevano sequestrata a Milano e caricata su un camioncino. Allora lo sapevano ancora in pochi e già si sospettava che alcuni molto in alto di quella infamia si compiacessero. Quel giorno del 1998 chiamai dunque Dario Fo quando le agenzie diffusero il testo della sentenza di rinvio a giudizio sull’eversione nera degli anni Settanta. Alcune pagine erano dedicate al racconto di un fascista di rilievo secondo il quale a ispirare lo stupro erano stati certi ufficiali dei carabinieri e a compierlo alcuni suoi camerati coinvolti in traffici d’armi ed esperti nell’infiltrarsi come provocatori e informatori dei carabinieri in ambienti della sinistra. Chiesi all’ormai Premio Nobel se anche il suo arresto di 25 anni prima facesse parte di quel clima. “Perché, hai dei dubbi?”, mi rispose ridendo. E in quella intervista che pubblicai inquadrò la terribile storia di sua moglie e delle vicende di Sassari nella persecuzione a cui la cultura militante veniva sottoposta negli anni Settanta. Per capirne il senso bisogna un po’ riflettere sul ruolo degli intellettuali in quei tempi. Bisogna dimenticarsi del dominio dei like, dei talk show da giardino zoologico e di altri fenomeni che contribuiscono oggi a formare l’opinione pubblica. Allora i grandi scrittori, i grandi artisti, i grandi registi avevano un vero ruolo e il fascismo di stato era riuscito a infiltrarsi ovunque ma non nella cultura. Probabilmente per la sua storica estraneità a questa categoria. L’alternativa era quindi l’intimidazione. Non sono un dietrologo, ma ho la convinzione che in quegli anni camminassimo sul ciglio di una dittatura cilena o argentina e che se non siamo precipitati è perché gli stessi poteri internazionali che alimentavano quei regimi, per quanto riguardava noi più di una volta si siano tirati indietro per timore di una sinistra democratica ancora forte e organizzata nei sindacati e in un grande partito comunista. Pensate soltanto al 1978. Con il caso Moro sul quale si allungano ombre che dopo le ultime rivelazioni sono sempre più concrete: volevano uccidere con lui il compromesso storico e l’ingresso del Pci nel governo. O l’incredibile morte di Albino Luciani alla vigilia di una riforma della finanza vaticana che avrebbe pesantemente inciso su quella finanza italiana che alimentava sistemi corrotti di potere. E in mezzo, nel 1975, Pasolini massacrato. Non sto adesso a riassumere tutte le incongruenze e i continui cambi di rotta di indagini che volevano sin dall’inizio confermare la cervellotica e ridicola tesi dell’eccesso di un “ragazzo di vita” (molti usurparono quelle parole) che legittimamente si difendeva dal violentatore Pasolini. Io dico solo che quel delitto oggettivamente faceva parte della strategia dei neofascisti e dei loro burattinai. Quando Pasolini venne ucciso era al culmine del suo prestigio di intellettuale europeo. E insieme uno dei più feroci e acuti critici di un’Italia in balia di degenerazioni di ogni sorta. Lo assassinarono il giorno successivo al suo ritorno da Stoccolma, dove aveva incontrato i grandi dell’avanguardia cinematografica svedese, tra cui Ingmar Bergman. Aveva offerto all’Espresso, allora il più diffuso e battagliero tra i settimanali di denuncia, una sintesi della sua tesi sul consumismo inteso come un fascismo più pericoloso di quello classico, un’idea che dava molto da pensare a certi circoli. Pasolini si stava dedicando soprattutto ai nuovi sistemi di dittatura materiale e intellettuale. Parlando di televisione come sistema totalizzante aveva tra l’altro ipotizzato con straordinario anticipo una struttura di potere che unisse il controllo dei media e quello del governo. Aveva accusato la Dc, partito di governo, di legami con la criminalità organizzata e aveva previsto Tangentopoli con un anticipo di quindici anni. Accusava il partito di governo non solo di essere l’epicentro di un sistema di corruzione, ma anche di appoggiarsi al terrorismo neofascista a sua volta legato ai servizi deviati. E poi “Petrolio”. Il libro uscito postumo senza le pagine, misteriosamente scomparse, sulla morte di Mattei, l’uomo che voleva un’Italia libera dal giogo delle Sette Sorelle. Era una storia già in parte raccontata dal regista Francesco Rosi, con il quale Pasolini aveva collaborato. E con lui il giornalista Mauro di Mauro: un altro che fece una brutta fine. Veltroni, quando era sindaco di Roma, chiese di riaprire il caso. Forse i mandanti dell’omicidio non si aspettavano che a difendere Pasolini si sollevasse anche un uomo che aveva radice nel Pci, il partito che aveva cacciato il genio omosessuale per “indegnità morale”. Gli assassini ritenevano che Pasolini fosse indifeso, un uomo a cui genialità, libertà, imprevedibilità e coerenza impedivano di accasarsi tra mura sicure. Anche da morto. Ma Veltroni chiese di cercare la verità e lo fece citando molti di questi moventi politici e riassumendo tutte le risultanze di un’indagine dubbia. Non ci riuscì, nonostante allora Veltroni fosse un uomo molto potente. I poteri che avevano voluto disinnescare un cervello esplosivo, come aveva fatto Mussolini con Gramsci, erano evidentemente più potenti di lui. E ora purtroppo quelli che commentano con un sorriso la “tesi del complotto” possono continuare a sorridere. Sembra che non ci siano prove. Se non quelle che ciascuno di noi può conservare nella propria coscienza ragionando su quel che si sa. Poco ma sufficiente per salvare e conservare la memoria di un grande testimone del nostro tempo. E si sa che i testimoni, nelle storie di mafia, spesso vengono ammazzati.
Nato nel 1951, ottobre (bilancia, ma come tutti quelli della bilancia non crede nell'oroscopo). Giornalista dal 1973. Scrive anche altra roba. Ma gratis, quindi non vale.
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