Le cronache di questi tempi ci raccontano sempre più spesso di gente licenziata con comunicazioni spicce, essenziali fino al disumano. Trump congeda i suoi collaboratori con un tweet, alcune decine di dipendenti di Trony hanno saputo di aver perso il lavoro da un messaggio whatsapp. Del resto, lo stesso Steve Jobs cacciava via sms i collaboratori che non gli andavano più. Il mondo corre, non c’è tempo per formalizzarsi, piangere o dire un semplice “mi dispiace”. Però, per esperienza personale, dico che le lettere di licenziamento non erano meno crudeli, quando arrivavano in busta chiusa e con lettere firmate dall’amministratore delegato dell’azienda. A me è accaduto una volta, sedici anni fa. Ero stato assunto come praticante giornalista da L’Unione Sarda. Non so come funzioni adesso, ma allora si entrava al giornale con un contratto a tempo determinato che veniva rinnovato a tempo indeterminato dopo un anno. I miei dodici mesi di prova scadevano alla fine del gennaio del 2002 e attendevo con fiducia il momento della verità. Con fiducia, perché a metà gennaio ero stato in redazione centrale per un servizio (la sentenza del Tar che annullò le elezioni comunali di Olbia del 2001, non potrei dimenticarlo) e nell’occasione ero andato a parlare col direttore del giornale. “Ma scherzi? Per il tuo rinnovo non c’è nessun problema, stai tranquillo”. Credevo di meritarmelo: in quell’anno non avevo pensato ad altro, ci avevo messo tutto me stesso per imparare la professione. Il 30 gennaio, primo pomeriggio, ero in auto col fotografo, a Olbia. Andavamo in un piccolo negozio di abbigliamento, in una traversa di via Vittorio Veneto, per intervistare i titolari, che quella stessa mattina erano stati rapinati. La radio accesa dava la notizia di un bambino ucciso in circostanze misteriose, quella stessa mattina, in un piccolo centro della Val D’Aosta, Cogne. Poco prima che arrivassimo alla boutique, squillò il mio cellulare. “È arrivata una lettera per te dal giornale”, disse mia mamma. In quell’anno mi ero anche sposato e avevo cambiato casa, ma la posta continuava ad arrivare al vecchio domicilio, dai miei genitori. “Aprila e leggimela”, risposi io. “Le comunichiamo che l’azienda non intende rinnovare il suo contratto. La ringraziamo per il lavoro svolto”, ripeté mia mamma, o qualcosa del genere. “Cosa vorrebbe dire?” aggiunse lei incredula. Ma io non seppi che dire o cosa spiegare. Ricordo solo di aver chiamato mia moglie, che era incinta di tre mesi, e di averla sentita piangere al telefono. Poi buio, panico, la sensazione di essere precipitato in una voragine mentre correvo a perdifiato, perché quell’anno fu un corri corri senza sosta. Vissi quell’esperienza come una delusione cocente, una bocciatura definitiva. E poco sarebbe cambiato se quella comunicazione fosse arrivata via sms, anziché attraverso una lettera su carta intestata indirizzata ai miei genitori. Avrei trovato più umano se, prima della lettera, quel licenziamento mi fosse stato annunciato a voce, da qualcuno che mi guardava negli occhi. “Non sei capace di fare questo lavoro, cercatene un altro”: avrei preferito questa formula impietosa al silenzio e alla tre righe spedite via posta ordinaria. Invece nulla. Poi però le considerazioni dei fatti cambiano, con la maturazione e la maggiore conoscenza di sé. Nel cammino della mia vita, ho avuto altre occasioni professionali e verso il mestiere di giornalista ho via via maturato un distacco che mi fa ritenere, oggi, che quella lettera sia stata la mia salvezza. Non mi ci sarei davvero visto a trascorrere la mia esistenza dentro una redazione, ma questo l’ho capito solo molti anni dopo. In un modo o nell’altro mi sono arrangiato e sono arrivato dignitosamente fino ad oggi. Voglio dire a coloro che oggi ricevono la lettera di licenziamento che forse non è il caso di vedere tutto nero, che se la sorte chiude una porta forse apre una finestra in un’altra parete. Non voglio passare per il George Clooney di “Tra le nuvole”, tagliatore di teste assunto per comunicare i licenziamenti al personale delle aziende in crisi: non è che perdere il lavoro significhi riconquistare la libertà, ma certo non è neppure la fine del mondo. Bisogna andare avanti e poco importa se l’obbligo di ripensare la propria vita arrivi via whatsapp o per lettera su carta intestata.
Nato nel 1971 ad Arzachena ed ivi smisuratamente ingrassato negli anni seguenti, figlio di camionista e casalinga. Titoli appesi alle pareti: laurea in Lettere moderne all'Università di Sassari, iscrizione all'albo dei giornalisti professionisti, guida nazionale di mountain bike, presidente della Asd Smeraldabike, direttore della testata Sardegnablogger. È stato redattore di tre diversi quotidiani sardi: dal primo è stato licenziato, gli altri due sono falliti. Nel novembre del 2014 è uscito il suo primo romanzo, "Cosa conta".
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