Ill.mo Procuratore Dr. Roberto Saieva In questi giorni un certo scalpore hanno suscitato le Sue dichiarazioni in occasione dell’inaugurazione dell’anno giudiziario. In queste dichiarazioni parla di “istinto predatorio tipico della mentalità barbaricina”, in relazione ai sequestri di persona di ieri e delle rapine ai portavalori oggi. Ma parla anche di individualismo dei sardi, per spiegare le mancate infiltrazioni della mafia e del crimine organizzato in Sardegna. Come a dire, la mafia è roba per gente che sa cooperare e i sardi manco quello, per fortuna s’intende. relazione inaugurazione anno giudiziario Per uno strano scherzo del destino, chi scrive ha lavorato nella Polizia Giudiziaria di una Procura della Repubblica per oltre un decennio ma, nel contempo, ha una laurea specialistica in antropologia culturale e tuttora, nel tempo libero, studia, ricerca e scrive di storia, ambiente e cultura sarda. Conosco il mondo della Giustizia, i suoi problemi e le difficoltà che sta vivendo, ne sono consapevole. Sono rimasto perciò sorpreso di queste Sue dichiarazioni, frutto, mi spiace dirlo, di stereotipi piuttosto banali sull’isola. Molti, in Sardegna, si sono risentiti. Immancabili le polemiche, spesso accese, sul rapporto da sempre conflittuale tra Stato e Regione. Altri hanno alimentato polemiche politiche. Le Sue dichiarazioni ci hanno proiettato indietro nel tempo, quando, fin dall’800, i burocrati d’oltremare calavano in Sardegna con i loro strumenti culturali del tutto inadeguati, figli spesso di ottusi pregiudizi. Sotto accusa è la stessa branca della Scuola Antropologica Italiana che si è occupata di criminologia, quella di Lombroso e adepti, oggi considerata niente di più che un ramo secco della scienza, possibilmente da amputare al più presto per le sue connotazioni razziste. Deve sapere, Sig. Procuratore, che i pregiudizi sui sardi sono serviti, nel corso degli anni, a preparare una propaganda che, alla fine, preludeva ad uno stravolgimento sociale ed economico a beneficio di razze, quelle si, che potremo definire “predatorie”. Deve sapere che, nel corso della sua lunghissima storia, la Sardegna ha vissuto con un regime fondiario delle terre comunitario. Troverà in Europa poche altre regioni con un senso della comunità e della terra comune così spiccato e che è sopravvissuto così a lungo. Questa gestione comunitaria della terra, la stessa, per fare un esempio, che si interrompe con le “enclosures” in Inghilterra e via via in altre parti d’Europa, a partire dall’inizio dell’era moderna (1500), in Sardegna prosegue fino alle tanto strombazzate riforme dei piemontesi, imposte con la forza a fronte di rivolte popolari. In Sardegna si ricorda ancora come un trauma, celebrato con tristezza e rabbia dai poeti dell’epoca, il famigerato “Editto delle chiudende”. La gestione comunitaria della terra risaliva fino all’epoca dei Giudicati, (1000 ca) ma è verosimile, dato che dopo la fine dell’epoca romana sono state recuperate, secondo i più autorevoli studiosi, le istituzioni antiche, che essa risalisse all’epoca nuragica. Ora sullo studio della storia giudicale, come della storia nuragica, in Sardegna vi sono diverse vedute che originano contrasti e correnti di pensiero diverse. Tuttavia, da antropologo che “studia lo studio la storia”, la storiografia, non credo di cadere in nessuno luogo comune se sostengo che l’atteggiamento di molti storici e studiosi della Sardegna è simile a quello di quei burocrati d’oltremare. Lo dico per cercare di capire, Sig. Procuratore. Temo che vi sia un retroterra culturale, sulla Sardegna, nel nostro Paese, consolidato e scontato, al punto che chi riprende quei luoghi comuni non si rende conto dei gravi errori che commette. Nel 1800 la propaganda per poter privatizzare quelle terre comuni, tendeva alla creazione di una borghesia in grado di poter sviluppare una cultura imprenditoriale. Che in Sardegna non ci poteva essere per un motivo semplice. Perché, dato che era da secoli una colonia sfruttata dagli spagnoli con il sistema feudale, non ne aveva avuto il modo. In realtà, le terre sarde furono spartite e accaparrate “dagli amici degli amici”, sicché non nacque né la libera concorrenza e neppure la borghesia, se non in casi limitati. Durante quelle rivolte contro i muri e le recinzioni, contadini e pastori della Sardegna furono imprigionati e molti furono giustiziati. Lottavano per un senso comune della proprietà terriera. E i loro discendenti, per cinico scherzo del destino, accusati di individualismo. La questione del supposto individualismo dei sardi è piuttosto complessa. In realtà il senso comunitario dei sardi è forte ma, essendo di tradizioni radicate, fa fatica ad adeguarsi alle richieste dell’economia di oggi. Ma sono sicuro che presto, quella tradizione comunitaria così radicata, tornerà utile. Tuttavia mi rendo conto che la brevità di questa lettera non consenta una più accurata sintesi storica di quei tempi. Ma buone letture, ivi compresi il mio “Colpi di Scure e Sensi di Colpa” sulla storia del disboscamento della Sardegna, potranno certamente offrire gli approfondimenti necessari. Arrivarono, in quei tempi, “i predatori”, ma quelli veri, della Sardegna. Il pastore scacciato dal bosco perché accusato ingiustamente di distruggerlo, con il suo bestiame porcino ridotto alla fame, vide quegli imprenditori di “spirito imprenditoriale” scotennare a zero le foreste sarde per farne, nel corso dell’800, mano a mano che la vegetazione sarda si impoveriva, prima legname d’opera, poi traversine ferroviarie, infine carbone vegetale. E così fu per le saline, le miniere, le tonnare, e tanto altro ancora. Il banditismo nacque così, in Sardegna. Non per un istinto predatorio (anche se è vero che la conflittualità tra barbaricini e romani e tra pastori e contadini è un fatto storico, ma non determinante), ma per uno stravolgimento sociale che mutava, o cercava di mutare, una economia di sussistenza in economia di mercato senza la necessaria gradualità e senza che vi fossero i presupposti sociali ed economici. In queste trasformazioni, in genere, un effetto tipico è la creazione di un consistente proletariato espulso dai processi produttivi, utilizzato in parte come manodopera a basso costo per le nascenti fabbriche, in parte destinato al fallimento sociale, alla disoccupazione, al vagabondaggio, alla vita di espedienti. Nacque così il banditismo in Sardegna, altro che misure del cranio. E purtroppo, nell’impatto con la civiltà dei consumi, nel secondo dopoguerra, quel banditismo si deforma per inseguire le illusioni di una civiltà materialista e fondata sul dio denaro. La civiltà dei consumi in Sardegna viene introdotta, simbolicamente, con i cosiddetti “Piani di Rinascita”, nel secondo dopoguerra. Sig. Procuratore, conosce la storia dei Piani di Rinascita? In quell’occasione si toccò l’apice del binomio “propaganda sui pregiudizi contro i sardi” e “prenditori venuti a rapinare le risorse”. Il mondo agro-pastorale sardo fu criminalizzato, perché la redenzione stava nella “modernità”, nelle saponette e nella schiuma da barba, nella televisione ridondante di caroselli, belle donne e prodotti della “réclame” e nella Fiat 500. Chi era fuori dalla logica del mercato, era un fallito. E per entrare nella logica del mercato, occorrevano le industrie. Sappiamo come andò a finire: la maggior parte di quei consistenti finanziamenti finirono nelle tasche della “razza padrona”, per usare una felice espressione giornalistica di quegli anni, ovvero la borghesia industriale del nord Italia. Ancora una volta, al mondo tradizionale sardo, le briciole. Ecco il vero istinto predatorio. Però il germe del consumismo era entrato nella testa di molti. Mescolato con le antiche consuetudini e talvolta con le rivendicazioni marxiste, tanto in auge all’epoca, ne nacque una miscela esplosiva che diede vita alla stagione dei sequestri di persona in Sardegna ma anche in altre parti d’Italia e d’Europa. Erano anni duri e difficili di trasformazione e cambiamento, preludio al terrorismo degli anni di piombo. Sia chiaro, in Sardegna i sequestratori erano considerati delinquenti, nonostante i rotocalchi, spesso, ne connotassero le gesta romantiche. Tuttavia, si alimentarono ulteriormente altri pregiudizi, come la presunta “omertà” dei sardi dell’interno, scambiando l’ostilità storica e, se vogliamo, giustificata (si pensi ai tempi della “Caccia Grossa” di Biechi, primi del ‘900) contro alcune istituzioni, per complicità e favoreggiamento (e qui alcune cose interessanti si ritrovano nel classico di antropologia giuridica di Pigliaru e nell’analisi di Michelangelo Pira, per farla breve). Sig. Procuratore, lei certamente è a conoscenza della recente statistica del Sole24Ore. Si legga questo mio precedente articolo a proposito: la Sardegna è la regione più sicura d’italia . Noterà come, proprio la Sardegna, e proprio la Sardegna barbaricina e ogliastrina, è quella dove si commettono, in assoluto, meno reati in Italia (che già di per sé, statisticamente, è un paese sicuro). Insomma, la “razza” barbaricina è una delle più corrette e rispettose delle leggi del mondo ma, verrebbe da dire, ai burocrati d’oltremare, non è mai importato nulla.
Fiorenzo Caterini, cagliaritano classe '65. Scrittore, antropologo e ambientalista, è studioso di storia, natura e cultura della Sardegna. Ispettore del Corpo Forestale, escursionista e amante degli sport all'aria aperta (è stato più volte campione sardo di triathlon), è contro ogni forma di etnocentrismo e barriera culturale. Ha scritto "Colpi di Scure e Sensi di Colpa", sulla storia del disboscamento della Sardegna, e "La Mano Destra della Storia", sul problema storiografico sardo. Il suo ultimo libro è invece un romanzo a sfondo neuroscientifico, "La notte in fondo al mare".
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