Caro maestro, il suo arresto a Sassari nel novembre del 1973 fu il primo evento di straordinaria importanza che affrontai come cronista principiante nell’Unione Sarda. Confesso che nei successivi quarant’anni in questa e in altre testate non me ne sono capitati poi tanti altri dello stesso livello. Ricordo quando quella notte mi trovai alla fine a essere l’unico giornalista presente e facevo la spola tra la stanza del questore, dove lei veniva interrogato, e l’atrio della questura, dove si trovava la signora Franca Rame. Fui io a dirle di avere orecchiato che era stato formalizzato il fermo e che entro breve lei sarebbe stato portato a San Sebastiano. Da parte della signora avvertii quella che mi apparve una malcelata reazione di sollievo, come se sapere il proprio uomo in cella, ma sotto la formale protezione della legge, le desse più tranquillità che vederlo ancora più a lungo nelle mani della polizia. Stando accanto alla signora Rame in quella circostanza e in occasione della straordinaria e spontanea manifestazione di protesta a cui cinquemila sassaresi diedero vita sotto le mura di quell’antica galera, rimasi affascinato dal suo temperamento di donna forte e insieme innamorata. Si divideva tra l’apprensione per suo marito prigioniero e la necessità di svolgere il proprio dovere di militante, onorando il compito di guida di quella irripetibile protesta popolare che in parte mitigò la vergogna cittadina dell’arresto. Quando anni dopo ci risentimmo, caro maestro, le dissi che quella manifestazione, secondo me, aveva compiuto il miracolo di saldare le tradizioni illuminate della borghesia liberale sassarese con i venti nuovi che spiravano nella sinistra, inaugurando la breve ma entusiasmante stagione di un blocco democratico e progressista che governò la città. Lei pensò a lungo a ciò che le avevo detto e mi rispose che se questo era davvero avvenuto sarebbe bastato a renderle gradevole persino quella terribile notte in carcere. Io quella volta non ho voluto per pudore dirle una cosa. Che quell’abbraccio con il quale lei, così alto e grande, avvolse me, uno scricciolo, davanti a centinaia di persone nel salone della Camera del Lavoro di via Al Carmelo, è la cosa più gratificante che abbia ricevuto nei miei quarant’anni di professione. E avvenne proprio all’inizio di essa. Posso dire che i vertici professionali e umani del mio essere giornalista sono racchiusi in quei primi mesi di mestiere. Ricorda? Lei era uscito da pochi minuti dal carcere e una folla entusiasta la accompagnò sino alla Camera del Lavoro perché lei parlasse alla gente di Sassari e Sassari potesse dirle quanto si vergognava di ciò che le era accaduto. Io ero in un angolo con il mio taccuino. Franca Rame mi vide, mi sorrise e le disse qualcosa all’orecchio. Certamente le raccontò della notte prima, quando io facevo la spola tra l’ufficio del questore e l’ingresso della Questura, dandole ogni informazione possibile e correndo così il rischio di essere sbattuto fuori, perdere il più importante servizio della mia vita e probabilmente anche il posto di lavoro. Lei certamente saprà che un giornalista deve dare solo al suo giornale e ai lettori le informazioni di cui viene in possesso. Ma la mia carriera cominciò con questa grave trasgressione alla deontologia, che, ora le confesso, era dovuta principalmente al fascino irresistibile che provavo nei suoi confronti e in quelli della signora Franca, così bella, così innamorata, così impaurita per le sorti del suo uomo e insieme così fiera di lui e degli ideali che condividevate. Dunque la signora Rame le parlò di me, me ne accorsi perché entrambi mi guardavate e la signora mi indicava. Poi mi faceste entrambi segno di avvicinarmi, lì dove eravate, al centro dell’attenzione di quel salone affollato, con gli inviati ormai arrivati dai giornali di tutto il Paese. Lei, maestro, mi disse con un sorriso immenso: “Grazie, Cosimo”. E mi soffocò in un abbraccio che non ebbi neppure il coraggio di ricambiare. Stetti lì con il taccuino stretto tra le mani e una grande voglia di piangere. Tanto che quando importanti miei colleghi, il cui solo nome mi faceva tremare, mi chiesero perché lei mi avesse abbracciato, ebbi il coraggio di rispondere con un po’ di irritazione: “Sono cazzi miei”. E la storia vera di quell’abbraccio volò invisibile nella sala piena di bandiere rosse senza che alcuno la infilzasse sulla punta della penna per appiccicarla al foglio del taccuino. Me compreso. A rovinarmi un pochino quei giorni ci fu soltanto il fatto che le notizie da me raccolte finirono sotto altre firme. Mi spiegarono che non era dignitoso per il giornale che un ragazzino al lavoro da pochi mesi firmasse un fatto di così straordinaria importanza. Pazienza! Allora, come tutti, ignoravo che pochi mesi prima di quell’ignobile arresto di Sassari, la signora Rame era stata rapita e aveva subito violenza da alcune bestie fasciste, probabilmente legate a chissà quali “servizi deviati”. Lo speriamo, almeno, come buoni italiani, che fossero deviati. Quando questa storia si seppe, molti anni dopo, le chiesi se lei pensasse che quel fatto e l’arresto di Sassari fossero legati in un comune progetto di intimidazione nei vostri confronti e di ciò che rappresentavate. Lei mi disse di sì. E anche allora commisi una trasgressione deontologica, perché scrissi soltanto queste sue considerazioni politiche e non anche alcune così dolci e umane considerazioni personali che lei fece parlando di quel periodo. Lei sapeva che avevo un registratore, non mi chiese di non scrivere quelle cose. Eppure non le scrissi. Mi sembrava di tradire un momento di confidenza, un piccolo sfogo, che, chissà perché, lei mi aveva voluto dedicare. Forse è stato un caso: l’ho chiamata in un momento in cui aveva bisogno di dire certe cose. E infine pochi anni fa, quando le inviai il testo di una mia commedia, “Il gatto prigioniero” dove si ripercorre la storia del carcere di San Sebastiano, parte importante della quale è la sua notte di detenzione in quel 1973. Lei ha letto come abbia cercato di rendere nel personaggio di Franca Rame questa coesistenza tra sentimenti personali di straordinaria intensità e la proiezione pubblica del ruolo a cui le circostanze la obbligavano. Ho preferito invece dare una valenza di simbolo al suo personaggio, Dario Fo, rappresentato sempre di spalle, silenzioso e con un giaccone blu da marinaio (lo ricordo ancora, e lei continuò a indossarlo – nonostante i bottoni strappati dai poliziotti durante l’arresto – anche alla sua uscita dal carcere). E ho cercato anche di raccontare la solidarietà di cui la circondarono gli altri detenuti e l’imbarazzo e l’ammirazione che gli agenti di polizia penitenziaria nascondevano a stento. E di questi ultimi ebbi testimonianza non soltanto dal suo racconto ma anche da quelli di alcuni d loro. Tutto questo misi nella mia commedia e la commedia le piacque. Ed è inutile dire quanto ciò mi rese orgoglioso. Non mi sono neppure mai chiesto se, essendo lei una persona cortese, fosse vero che davvero le era piaciuta. La invitai a venire a Sassari per la rappresentazione a San Sebastiano, dove così sarebbe potuto rientrare e rivedere da uomo libero e premio Nobel la sua cella. Ma purtroppo questa commedia è stata rappresentata dappertutto, tra teatri e carceri, meno che nel carcere di San Sebastiano. Mi hanno detto per questioni “di opportunità”. Altri dicono censura. Boh. Mi scusi, caro maestro, ma queste sono piccolezze di una città che purtroppo a poco a poco dimentica il momento di grandezza che lei le ha fatto vivere. E ora vorrei ricambiarle quell’abbraccio. Dopo più di quarant’anni trovo il coraggio il farlo.
Nato nel 1951, ottobre (bilancia, ma come tutti quelli della bilancia non crede nell'oroscopo). Giornalista dal 1973. Scrive anche altra roba. Ma gratis, quindi non vale.
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