La prima volta che ebbi in dotazione-lavoro una scrivania con un pezzo di parete alle spalle dove appendere qualcosa, era il 1973 e vi appesi una prima pagina dell’Espresso, che allora era formato lenzuolo e anche sul piano estetico faceva la sua porca figura. All’arrivo di Repubblica mancavano tre anni e per lo stuolo di giornalisti ex sessantottini e da pochissimo pure ex adolescenti L’Espresso era il simbolo del giornalismo al quale aspiravano. Non sono mai stato bravo a immaginare il futuro e non avrei mai pensato che otto anni dopo avrei cominciato a ricevere lo stipendio da un gruppo editoriale che prendeva il nome dal giornale che in quel 1973 mi ero appeso alle spalle, ciò che avvenne quando Caracciolo diventò l’editore della Nuova Sardegna, facendone uno dei giornali regionali più belli d’Italia; in certi suoi momenti, azzardo a dire, il più bello.
Da ragazzi degli anni Sessanta, quando avevamo soldi in tasca senza toglierli alle sigarette, al sabato compravamo L’Espresso e Paese Sera. L’Espresso perché era L’Espresso e non c’entrava niente se non era comunista, non osavamo confessarcelo perché eravamo dogmatici, ma L’Espresso era al di sopra delle parti, era l’informazione che ci piaceva, era la modernità e la libertà. Paese Sera invece lo prendevamo soprattutto perché non era l’Unità, che noi extraparlamentari di sinistra ritenevano il simbolo del Pci revisionista e non ci rendevamo conto che invece proprio nell’Unità si sviluppava il dibattito che avrebbe portato il comunismo italiano, con Berlinguer, alla testa del progressismo occidentale.
Nel 1981, quando L’Espresso divenne anche il mio editore, sviluppai una sorta di ammirazione periferica per il centro di quel gruppo. I primi tempi dell’acquisizione ne vedevo ogni tanto i miti venire a trovarci: Caracciolo, gentile con tutti, a smentire l’immeritata fama di nobile altezzoso, Scalfari e altri i cui nomi ai profani di questo mondo non dicono nulla ma ne faccio uno: Mario Lenzi, direttore editoriale dei giornali locali, che aveva fama di spietato manager di provenienza giornalistica ma di granitica cultura imprenditoriale. Quando ebbi la promozione a un ruolo che mi imponeva non soltanto di scrivere per i fatti miei ma anche di guidare un settore di colleghi che dovevano a loro volta scrivere, mi chiamò da parte per farmi gli auguri e mi disse: “E’ la tua prima promozione. Ricordati di questo: in un giornale la prima dote per comandare bene è quella di farlo malvolentieri, di non amare il comando in sé. Assumiti la responsabilità delle tue decisioni ma non compiacerti del tuo potere, usalo senza assaporarlo. Ricordati che questo è un giornale non una caserma. La nostra forza anche economica è fatta dalla creatività e dalla libertà di ciascun giornalista e non ci deve essere alcun caposervizio che le reprima”.
Ecco. Al di là di ciò che è stato visibile a tutti, cioè l’informazione coraggiosa, moderna e democratica che quel gruppo ha dispensato, questo che vi ho raccontato è un piccolo esempio dell’aria che vi si respirava anche alla sua periferia. Che in fondo, imparai, non era poi così lontana dal centro. Ed è per questo che sviluppammo tutti o quasi un senso di appartenenza, una sorta di patriottismo aziendale che ora, da vecchio pensionato che sono, leggendo le novità che riguardano L’Espresso, mi fa sentire come un emigrato che riceva brutte notizie sulla sua terra ormai lontana.
Nato nel 1951, ottobre (bilancia, ma come tutti quelli della bilancia non crede nell'oroscopo). Giornalista dal 1973. Scrive anche altra roba. Ma gratis, quindi non vale.
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