Di acqua sotto i ponti ne è passata tanta. Quanti volti, quante voci, quante storie si son persi nel grande vuoto della mia memoria in cui a volte immergo un secchio, nel vano tentativo di riportare a galla frammenti della mia esistenza. Di acqua sotto i ponti ne è passata tanta. Eppure c’è un volto, una voce, una storia che non dimentico e che, periodicamente, mi ritorna in mente, intatta e nitida come una vecchia fotografia ben conservata.
Silvio era un uomo piccolo, ma proprio piccolo. Davanti a lui, non essendo esattamente un gigante, quasi mi sentivo alto. Indossava occhiali fuori moda, jeans e magliette senza pretese, ai piedi portava perlopiù un paio di mocassini usurati che non dovevano superare il 36.
Quando lo conobbi era un uomo impegnato nel sociale. Lavorava con il Pci. Anzi, con i ragazzi del Pci, quelli della Federazione giovanile comunista che, all’epoca, si distinguevano per la voglia di contribuire alla crescita della città, per il gusto di denunciare le porcate delle amministrazioni, per proporre alternative e propagandarle senza che nessuno avesse paura di vedersi affibbiata un’etichetta come fosse un marchio d’infamia. Per questo preferisco usare il termine “sociale”. Per distinguere la politica di quegli anni da quella odierna. Insomma, si faceva politica a volto scoperto.
I giovani comunisti organizzavano dibattiti, manifestazioni, petizioni, volantinaggi e soprattutto concerti. Erano attivissimi in una città in profonda evoluzione. Così come lo erano i giovani missini, naturali avversari ideologici che, però, preferivano non occuparsi di musica e cultura, tradizionale serbatoio della sinistra e dei suoi nostalgici rivoluzionari.
In quella vita viveva Silvio. In quella vita dimenticava la sua condizione di sfigato, in quella vita misurava la sua capacità di integrarsi grazie alla quantità di eventi ai quali poteva partecipare, fosse solo per provare un microfono o piazzare gli strumenti. Lui c’era sempre. Io quasi. Quegli anni scivolarono via veloci. Tanto veloci che non saprei dire quando accadde.
Una mattina Silvio deve essersi svegliato senza più la sua vita da vivere. Era finito tutto. I giovani comunisti erano diventati grandi, il Pci spendeva le sue ultime ore e la politica lasciava le piazze per trasferirsi in confortevoli salotti frequentati da gente snob, arrogante e piena di soldi. Niente più dibattiti, feste dell’Unità, concerti e comizi. Niente, più niente da fare. Penso alla noia che dilata il tempo e alle ore interminabili che il verme della depressione divora lentamente. Una mattina il mondo di Silvio sparì. Al suo posto ce n’era uno nuovo, decisamente peggiore.
Lo incontrai per l’ultima volta una mattina, in una via del centro. Camminava a testa bassa. Mi salutò stancamente e continuò per la sua strada. L’istantanea del suo volto era un concentrato di tristezza. Non lo rividi mai più. Silvio aveva già deciso di ritirare la sua iscrizione dal mondo. Lo fece con grande discrezione, lontano da luoghi affollati. Anni dopo decisi di andare a salutare la sua anima, in un camposanto di un paese vicino, insieme a un amico comune. Di quel giorno ricordo il silenzio. Forte come solo il silenzio può essere.
Ho scritto questa storia qualche anno fa. Si è riaffacciata nella mia mente in questi giorni in cui osservo la sinistra italiana consumare la sua faida e analizzo la mia indifferenza. Quella di Silvio è una storia vera, così come la penso e la ricordo. Non è necessario conoscere il cognome di Silvio, anche se non è difficile scoprirlo. Non ci sono volutamente le date semplicemente perché non me le ricordo. Ho sempre pensato che Silvio meritasse qualcosa di più del nulla che gli è stato riservato dai suoi ex compagni. E che, in qualche modo, l’agonia della sinistra e la decadenza della politica in genere siano cominciate con l’abbandono degli ideali, della passione e del rispetto verso chi ci credeva sul serio.
Nel 2008 mi capitò di intervistare un illustre esponente del Pd, uno di quelli provenienti dalla federazione dei giovani comunisti di cui era stato, per lungo tempo, dirigente. Correva l’anno in cui, per la prima volta, i comunisti (credo rappresentati da Rifondazione) si ritrovarono fuori dal Parlamento. Gli chiesi quali sensazioni provasse, conoscendone i trascorsi. Rispose di malavoglia, lasciando trapelare un evidente disagio. Privatamente, mi fece sapere che la parola “comunista” era fuori luogo e che non comprendeva la necessità di fare riferimento a un passato divenuto evidentemente imbarazzante e persino pericoloso. L’aspirante onorevole non poteva saperlo e forse nemmeno capirlo. Ma aveva appena scelto il Silvio sbagliato.
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