Quando non ho voglia di farlo in campagna, corro nelle vie del centro storico. Non ci sono troppe auto, si sta bene, ogni volta penso che sto scorrazzando nel medioevo sassarese con le running ai piedi, in moderna tuta con cappuccio e il telefonino in tasca (alla mia età se mi metto a correre devo essere pronto a chiamare il 118). Le case non sono più quelle del Duecento, ma le strade sì, il disegno è quasi lo stesso, mi godo l’eccezione miracolosa della mia città dissennata.Come ieri mattina.Passo davanti alla chiesa di Santa Caterina, butto l’occhio al portale e vedo che le grandi ante sono spalancate. A me capita di entrare in chiesa più che altro per ragioni di curiosità storica. E nei mesi scorsi, appunto per una ricerca storica, ho avuto più volte bisogno di esplorare quell’edificio. Ogni volta sono stati necessari appuntamenti con qualche cortese rappresentante della curia e altre volte non è stato possibile neppure così. Già, Santa Caterina è una chiesa chiusa. Non è più parrocchia, l’hanno unificata con il Duomo che l’ha inglobata, lasciando al magnifico tempio barocco soltanto un ruolo monumentale, di facciata. Perché è soltanto la facciata che puoi vedere quasi ogni giorno dell’anno, salvo quei pochissimi, come quello di ieri, in cui le porte sono aperte. Mi fermo un po’ stupito e anche contento. Perché in fondo il mio precoce divorzio con i sacramenti e tutte quelle cose lì si è consumato proprio a Santa Caterina. In parole povere, io sono nato da quelle parti, la mia prima e la mia ultima messa da credente, che ero ragazzino, sono state celebrate in quella chiesa. Da quella chiesa veniva il prete che portava la comunione a nonna quando le veniva uno dei suoi coccoloni e non poteva neppure sollevarsi dal letto, in quella chiesa un prete mi disse in confessione che non potevo leggere Tex (peccaminoso) ma soltanto Blek o Capitan Miki e assolutamente non dovevo assistere ai film di Ercole, specie quelli dove c’era Silva Koscina. Tra i primi precetti che non rispettai. Devo dire nel disinteresse sorridente dei miei genitori che pure erano praticanti.Comunque, insomma, censure o non censure, quella chiesa è un pezzo di vita mia e quando la vedo aperta mi fa piacere.Curioso, mi fermo. Risalgo la scalinata e sento un canto.Hai presente i canti liturgici del rito ortodosso? Sono diversi da quelli cattolici romani. Direi soprannaturali, se non mi dessero del bestemmiatore, visto l’argomento. Beh, in fondo è proprio così. Soprannaturali perché in quel canone la divinità è separata dai fedeli persino fisicamente, da una parete, l’iconostasi, ed è soltanto il canto che unisce il popolo ai sacerdoti, gli unici ammessi all’aldilà oltre lo schermo.Quindi un canto più solenne, misterioso.Entro, percorro affascinato una navata laterale sin quasi all’altare, arredato in maniera inconsueta con delle sovrastrutture. In chiesa ci sono donne, uomini, molti giovani. Partecipano dimostrando una conoscenza minuziosa del rito, qualcuno mi sembra commosso. Dalla sacristia esce un tale, poco più che un ragazzo, mi sembra uno che organizza e gli chiedo che cerimonia sia.-Siamo ucraini, celebriamo l’Epifania.Ecco, ho capito. Sono cattolici di rito bizantino, mi spiego l’assonanza con il canto ortodosso, liturgie di tradizione orientale. La loro Epifania cade qualche giorno dopo quella dei cattolici romani.-Il vescovo ci ha permesso di riunirci qui, in questa chiesa che altrimenti anche oggi che è domenica sarebbe rimasta chiusa.Sono immigrati ucraini, una comunità numerosa a Sassari, con il loro canto solenne e i loro vestiti della festa, con le lacrime di qualcuno di loro stanno celebrando riti e ricordi e rimpianti. E’ gente lontana dalla sua terra e quel canto, all’improvviso, mi sembra altro.Come uno scemo penso a Giusti e mi dico-Era preghiera e mi parea lamentoChe magari se avessi rivelato a quel ragazzo fiero di sé e del suo popolo che lo paragonavo ai crucchi lagnosi di Sant’Ambrogio, mi avrebbe mandato a quel paese.C’erano gli immigrati ucraini a Santa Caterina. E l’hanno tenuta aperta nella sua funzione di chiesa e non soltanto di monumento. Che, anche per uno come me che non va a messa, significa tenere viva la città.Così come tutti gli immigrati che il buon Dio, se c’è, ci manda da ogni Paese tengono aperte le nostre chiese, le case, gli uffici, i negozi e le botteghe. Tengono popolate le nostre vie, danno alimento a una città e a quartieri dove il declino sarebbe ancora più precipitoso.E noi ne abbiamo paura.
Nato nel 1951, ottobre (bilancia, ma come tutti quelli della bilancia non crede nell'oroscopo). Giornalista dal 1973. Scrive anche altra roba. Ma gratis, quindi non vale.
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