Nello scorso fine settimana mi sono aggirato per alcuni dei “monumenti aperti” di Sassari, invasi da grandi folle. E’ sostanzialmente una scoperta del passato cittadino e nei commenti che senti mentre fai la fila spesso si traduce in un atto assoluto di amore e di rimpianto per tempi che mitizziamo ma che non conosciamo tanto bene. Ecco perché, come ogni tanto mi accade da quando è morto, ho sentito improvvisa la mancanza di Leonardo Sole. Io penso che non abbiamo capito l’enorme portata della scomparsa di Leonardo Sole. Era filologo, commediografo, poeta. Ma ora parlo dell’ideologo di una categoria diversa della “sassareseria”, quella moderna, intelligente, che condisce con l’amore la coscienza dei propri limiti e con la rabbia la voglia di superarli. L’uomo che ci ha fatto scoprire che ridere di un inesistente sassarese porcheddino non è teatro né letteratura, ma soltanto una barzelletta dilatata in vari atti o in decine di pagine; mentre rendere lo spirito amaro e giocoso, profondo e capriccioso di questa lingua è teatro, poesia, romanzo e ogni cosa che la parola possa rendere. Nardo ci ha aperto gli occhi sui nostri miti di carta profumata da barbiere, sull’arcadia che rimpiangiamo anche se non è mai esistita, per dirci che quel mondo di contadini e orti era un mare di sfruttati su cui galleggiava una zattera di benpensanti che per di più tentavano di sfottere il popolo costruendo a tavolino comici strafalcioni fatti di una commistione tra sassarese e italiano che nella realtà non è mai esistita. Fa parte infatti della nostra cultura, che sia colta o popolare, distinguere tra una lingua e l’altra, contrariamente a quanto avviene in molte altre zone d’Italia. Nardo lo sapeva bene e per questo ha reso il nostro spirito in opere che davvero interpretavano il popolo e non in storielle sussiegose e banalmente popolareggianti. Nardo ha quindi creato, penso nella quasi generale incomprensione, la nuova categoria culturale e politica del campanilismo politicamente corretto: una difesa dei nostri interessi, delle tradizioni, della lingua, del nostro cuore, insomma, fatta non di volgari e ingiusti insulti agli altri, o di lacrimevoli elenchi di ciò che ci sarebbe stato rubato a vantaggio di cagliaritani, di galluresi o di chissà chi altri, ma di amorevole e spietata analisi di ciò che siamo e di ciò che potremmo essere. “Il nostro sarcasmo – mi fulminò una volta per una battuta della quale mi compiacevo oltre il buon gusto – è un serpente che ci morde quando ci distraiamo. E il suo veleno ci fa ridere e ridere sino a renderci soddisfatti di noi stessi in misura tale da coprire ingiustizie, lacune, pigrizia e ogni altra cosa che impedisce a Sassari di essere ciò che meriterebbe”.
In alto, scena campestre sotto le mura di Sassari in un acquarello di Giuseppe Cominotti (tratto da “La raccolta Cominotti”, di Francesco Alziator- De Luca editore)
Nato nel 1951, ottobre (bilancia, ma come tutti quelli della bilancia non crede nell'oroscopo). Giornalista dal 1973. Scrive anche altra roba. Ma gratis, quindi non vale.
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