Esiste una continuità storica tra il disboscamento dell’800 e l’attuale sfruttamento dell’energia in Sardegna. Lo ha scritto alcuni giorni fa sulla Nuova Sardegna, a proposito del progetto per l’edificazione di un parco eolico a Bitti, Sandro Roggio, e lo ha ribadito su Sardegnablogger Cosimo Filigheddu, citando i miei studi sull’argomento. Questa continuità sta nel modello di sviluppo che, a partire dalle politiche coloniali piemontesi, che a loro volta affondavano nell’immobilismo del periodo iberico, è stato imposto all’isola, indirizzandola verso una dipendenza economica fondata sullo sfruttamento del territorio e delle risorse. Una “dipendenza dal sentiero” dalla quale oggi non è facile uscire fuori. La questione delle energie rinnovabili è emblematica di questa situazione. Da quando il mercato è stato drogato dagli incentivi, una marea di progetti per energie rinnovabili di ogni tipo, da parte di multinazionali forestiere, si affollano negli uffici della Regione. Nessuno è contrario alle energie rinnovabili, sarebbe assurdo. Chiunque dotato di un minimo di buon senso comprende che è auspicabile il passaggio dalla fonti energetiche fossili a quelle rinnovabili e, al limite, le divergenze possono nascere su che tipo di gradualità attivare nella gestione di questo passaggio. Tuttavia, in questa apparentemente impostazione inattaccabile nella sua logica, qualcosa non torna. La mente umana, si sa, ragiona meglio con delle opposizioni nette, e fa fatica a registrare le complessità e le sfumature delle cose. Nel gioco di queste semplicistiche opposizioni, le fonti fossili sono state sempre più demonizzate, mentre le fonti rinnovabili sempre più idealizzate. Le une cattive, le altre buone. La realtà è un po’ più complessa, perché, come è ovvio, anche le fonti rinnovabili hanno un costo, specie se il mercato è drogato da quote e incentivi di vario genere. Anche le fonti rinnovabili inquinano, anche se di meno, hanno un impatto sul paesaggio a volte deturpante, hanno dei costi onerosi di smaltimento dei rottami una volta terminato il ciclo produttivo, e possono consumare prezioso suolo agricolo. Ho fatto spesso l’esempio delle biomasse, che stanno producendo un aumento del disboscamento nel mondo. In Indonesia, per la produzione di biomasse derivate dall’olio di palma, incendiano le foreste abitate dagli oranghi, per impiantare la palma da olio. Si può definire energia rinnovabile la distruzione di queste foreste e di questi habitat? Tuttavia, se si vorrà salvare il pianeta, è accettabile governare, con molta oculatezza, questa transizione verso le fonti rinnovabili anche modulando incentivi che produrranno degli utili. Ora, come si distribuiranno questi costi e questi benefici? Il punto sta qua. Perché, dato che il nostro è un mondo squilibrato, automaticamente i guadagni in questa fase di transizione finiranno nelle tasche di imprese che provengono dalle zone centrali del pianeta, mentre i costi, sociali e ambientali, verranno scaricati sulle aree più deboli. Certo, se facciamo un calcolo complessivo del bilancio per il pianeta, esso sarà certamente positivo. Ma perché i guadagni devono finire altrove e i costi in Sardegna? Le imprese che stanno investendo sulle rinnovabili in Sardegna, infatti, provengono quasi tutte da fuori, ed esportano l’energia elettrica fuori dall’isola. I guadagni, dunque, finiscono altrove, insieme all’elettricità che non finisce, come dovrebbe, per il consumo locale. I sardi inoltre, per colmo del destino, si ritrovano il costo degli incentivi, dell’altrui guadagno, in bolletta. Certo, qualche spicciolo si ricaverà dall’affitto dei terreni. Ma nel caso dovesse essere consumato terreno agricolo, il bilancio risulterà essere negativo. E sarà negativo non solo sul piano economico, ma anche su di un piano “mentale”, e di quello delle probabilità di uscire fuori da quel sentiero di dipendenza che, spesso, assomiglia ad un assistenzialismo mendicante. Perché con il tempo ci si abitua a chiedere, all’affitto passivo del territorio, e ci si dimentica, e perdendo il contatto con il territorio si perdono le abilità, i saperi, le conoscenze. L’abitudine alla dipendenza impedisce la crescita economica alla stessa maniera del consumo del territorio, come questo continuo pensare all’isola come luogo economico marginale e dipendente, come ad una economia periferica vocata esclusivamente allo sfruttamento estero e alla dipendenza. Un circuito vizioso anche antropologico. Si tende sempre di più a frustrare le abilità manageriali, le idee, i prodotti tipici e i saperi locali, per il comodo affitto di un terreno destinato alla coltivazione di specie buone per le biomasse o per impiantare le pale eoliche. Una strada che porterebbe la Sardegna in un vicolo cieco, una sorta di ruota di scorta energetica del paese, trascurando le grandi potenzialità di integrare prodotti agronomici con il turismo. Quindi, nessuno è contrario all’eolico in Sardegna per principio, purché questo abbia una utilità. Ma quando si capisce quando un impianto di energie rinnovabili è utile e quando invece è puramente speculativo, ovvero serve solo ed esclusivamente per prendersi i finanziamenti pubblici o occupare le quote di mercato obbligatoriamente destinate alle rinnovabili? Semplice. Quando l’energia che si ricava viene convogliata in quel miracolo della tecnologia che è il cavo SAPEI ed esportata. In questo caso l’energia prodotta si disperde quasi inutilmente nella rete, esportata nella penisola, e in Sardegna restano solo i costi pagati nella bolletta dai cittadini. La stragrande maggioranza di questi impianti hanno questa destinazione. Viceversa, quando l’impianto serve direttamente l’azienda agricola, o le famiglie, o il paese, allora l’energia rinnovabile assolve al suo scopo economico ed ecologico. Ora allo Stato interessa la produzione complessiva dell’energia, mentre alla Regione interessa invece una ricaduta locale, ed è questo il motivo del braccio di ferro per nulla sussidiario tra ente centrale e periferico sulla questione dell’energia. Solo che, stante le cose, la Sardegna si ritrova, esattamente come nel periodo delle miniere, o del disboscamento, o delle servitù militari, o dello stoccaggio delle industrie pesanti, o del consumo del territorio in tanti modi, ivi compreso quello delle discariche e delle bonifiche mai eseguite, nella situazione di chi subisce gli ingombri del centro mentre la linfa vitale, i guadagni, e l’energia, ancora una volta prendono il volo.
Fiorenzo Caterini, cagliaritano classe '65. Scrittore, antropologo e ambientalista, è studioso di storia, natura e cultura della Sardegna. Ispettore del Corpo Forestale, escursionista e amante degli sport all'aria aperta (è stato più volte campione sardo di triathlon), è contro ogni forma di etnocentrismo e barriera culturale. Ha scritto "Colpi di Scure e Sensi di Colpa", sulla storia del disboscamento della Sardegna, e "La Mano Destra della Storia", sul problema storiografico sardo. Il suo ultimo libro è invece un romanzo a sfondo neuroscientifico, "La notte in fondo al mare".
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